(English translation below)
L’epica della geografia fa rima con tante cose: memorie personali, destini collettivi, sentimenti. Basta pronunciare parole quali Afghanistan, Kandahar, Kabul, Panjshir, e il mio umore si colora di melanconia. In quei luoghi si soffre, si torna a morire di fame addirittura, vi è un senso di spaesamento. Gli afghani non si sentono più i titolari del proprio paese, di cui non dispongono perché tutto gli è imposto, perfino il divieto tra le quattro pareti domestiche di attività elementari, come ascoltare musica o sfogliare un album di fotografia. 

A loro modo anche i talebani sono rewriters, riscrittori distopici della realtà, che plasmano a modo loro. E mentre da noi ci dilettiamo con abbigliamenti provocanti e colorati, loro dettano la legge del burqa. Pronunciamo allora Kabul, e così ridicoli e arretrati appaiono le vanità dell’Europa, i raccontini da pettegolezzo sulle avventure di quello o di quell’altra mezza celebrità, gli annunci di qualche idea che sono un niente, gli accenni piccanti tanto per richiamare l’attenzione, la penosa arte di cercare di apparire e fare colpo, le passerelle sportive o culturali o politiche,  gli artisti che si sforzano di mettersi in mostra con i loro vezzi, queste righe. Tutto diventa noioso e modesto, insulso e quasi osceno, al cospetto di una giovane donna che ha paura eppure è coraggiosa, e rischia grosso per denunciare il sopruso di non poter più studiare o di doversi nascondere.

Gandhara, dal nome dell’antica civiltà buddista del Pamir, è un buon sito per continuare a restare aggiornati su un paese che sta velocemente passando di moda. Dopo la prima fase emotiva, adesso chi ne parla più? E chi continuerà ad andare in Afghanistan?
Vera Risi ci ha raccontato la storia dei lapislazzuli di questa terra dell’Asia centrale che luccicano oggi alla Cappella Scrovegni. Forse gusteremo ancora qualche pistacchio, un aroma di zafferano di Herat. Ma per il viaggiatore, l’Afghanistan si sta trasformando ancora più di prima (quando almeno c’era un via vai di diplomatici, militari, operatori umanitari) in un non-luogo. Anzi, nel luogo che per esistenza di chi non se ne è andato, per l’impegno della diaspora che non dimentica da dove proviene, per lo spessore della forza umana si contraddistingue rispetto alle minchiate di troppa informazione europea. Kabul è ora come la Sarajevo dell’assedio, dove tutto è più importante dove, il luogo dove, come ho letto una volta a Kabul,

“forse non sono stato il più felice, ma dove anche la pioggia non è una semplice pioggia”.

Poi, come in tutte le geografie, l’after the rain rilancerà il cammino. 

ENGLISH VERSION

Afghanistan and the geography
of the mirror

The epic of geography rhymes with many things: personal memories, collective destinies, feelings. Just by saying words like Afghanistan, Kandahar, Kabul, Panjshir, and my mood is colored with melancholy. In those places one suffers, even might starve to death, there is a sense of disorientation. Afghans no longer feel like the owners of their own country, which they do not have because everything is imposed on them, even the prohibition between the four walls of elementary activities, such as listening to music or leafing through a photo album.

In their own way, the Taliban are also rewriters, dystopian rewriters of reality, which they shape in their own way. And while we delight in provocative and colorful attires, they dictate the law of the burqa. We then pronounce “Kabul”, and so ridiculous and backward appear the vanities of Europe, the gossip tales about the adventures of that or that other half-celebrity, the announcements of some idea that are nothing, the spicy hints just to recall the attention, the art of trying to appear and impress, the sporting or cultural or political catwalks, the artists who try to show themselves with their vanities. Everything becomes boring and modest, silly and almost obscene, in the presence of a young woman who is afraid but is also courageous, and she risks her very life in denouncing the abuse for not being able to study anymore or for having to hide. Gandhara, named after the ancient Buddhist civilization of the Pamir, is a good site to keep up to date on a country that is quickly passing by. After the first emotional phase, now who talks about it anymore? And who will continue to go to Afghanistan? Vera Risi told us the story of lapis lazuli of this land of Central Asia that shines today at the Scrovegni Chapel. Maybe we will still taste some pistachios, a Herat saffron aroma. But for the traveler, Afghanistan is transforming even more than before (when at least there was a coming and going of diplomats, soldiers, humanitarian workers) into a non-place. 

Indeed, in the place that for the existence of those who have not left, for the commitment of the diaspora who does not forget where they come from, for thickness human strength is distinguished from the bullshit of too much European information. Kabul is now like the Sarajevo of the siege, where everything is more important where, the place where, as I read once in Kabul,

“I may not have been the happiest, but where even the rain is not just a simple rain”.

Then, as in all geographies, after the rain will relaunch the path.

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