Strana storia quella di Alan Ball. Una carriera condensata in una manciata di anni, lanciata nel 1999 da quel capolavoro che è American Beauty, con cui vinse l’Oscar per la sceneggiatura. Poi, inaspettatamente, il cambio di rotta: nonostante l’Academy Award sulla mensola, Ball si diede alla serialità, forse intravedendo precocemente quelle possibilità televisive che oggi sono letteralmente esplose. Ed ecco che la sua firma è sotto l’idea di due serie cult di inizio Duemila: prima Six Feet Under e poi True Blood.
E il cinema? Poco, pochissimo, eccezion fatta per Niente Velo per Jasira, uscito nel 2008, dove ha esordito come regista. Almeno fino ad oggi, dato che dopo il giro a vuoto della serie Here and Now del 2018, è tornato dietro la macchina da presa con Uncle Frank, raccontando ancora una volta una vicenda dal punto di vista di una ragazza.

Certo, nel film, che trovate su Amazon Prime Video, non c’è la stessa cupezza di American Beauty, né lo stesso dirompente dramma sociale, ma la storia – per certi versi – ne richiama i temi e le metafore. Non siamo alla fine degli Anni Novanta, ma agli inizi dei Settanta e il protagonista, Frank – interpretato da un grande quanto spesso sottovalutato Paul Bettany – ha appena lasciato la sua famiglia in South Carolina per trasferirsi a New York City. Fa il professore, vive in un appartamento dai mattoni marroni e, soprattutto, è libero di essere omosessuale. Ma lui non è l’unico membro della Bledsoe Family ad aver lasciato il nido. Infatti, al centro di Uncle Frank, c’è sua nipote Beth (Sophia Lillis), trasferitasi a Manhattan per studiare insieme allo zio. Poi, la telefonata improvvisa: Daddy Mac, il gretto e spregevole papà di Frank muore improvvisamente. E allora bisogna mettersi in viaggio per tornare a casa provare a mettere a posto le cose.

Ecco, Uncle Frank, dai colori caldi come il sole del South East, e dalla soundtrack che alterna brani di Soul Blenders, di Sam & The Soul Machine e degli Isley Brothers, è un film che parla essenzialmente di verità e di libertà. Frank, empatico, romantico, colto, per vivere a pieno i suoi sentimenti è dovuto scappare da suo padre, troppo meschino per comprendere che l’amore è solo amore, per qualunque sesso lo si provi. E dunque, per Frank, fino alla resa dei conti, quella libertà fondamentale è stata spesso repressa, mutilata, vissuta con la paura e con l’ombra di una famiglia pronta a giudicarlo. È vero, direte voi, siamo nel 1973, nel sud degli Stati Uniti, e i diritti LGBTQ+ non erano certo contemplati, ma lo specchio di realtà narrato da Alan Ball non è tanto distante da alcune realtà contemporanee in cui i timori di essere ciò che si è sovrastano la consapevolezza di dover (e poter) vivere una vita libera.

Ed è qui che il ruolo di Beth si fa nevralgico, con il film che gira le pagine del coming-of-age e del road movie: pur non avendone la certezza – ripetiamo, gli Anni Settanta non erano minimamente accondiscendenti verso l’omosessualità – è Beth che comprende più di tutti gli incubi di suo zio, accompagnandolo in un viaggio catartico dove solo alla fine si rimettono insieme i pezzi di un vaso rotto ma non totalmente distrutto. Quella distruzione che, invece, aveva portato Alan Ball a scrivere l’esplosivo finale di American Beauty, sfumato in una disillusione che ci avrebbe accompagnato nel lontano trapasso tra il Novecento e il Duemila. Questa volta, però, l’ending scelto da Ball è diametralmente opposto. Niente devastazione, né buste di plastica che volano. Ma solo tanta speranza e tanto amore. Ovvero, quello che ci vuole.

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