Se il cinema italiano è ancora in grado di sorprendere e di meravigliarci lo si deve a una serie di cineasti curiosi, vivaci, con la voglia di sperimentare, un esempio: i fratelli D’Innocenzo che, con Favolacce, si sono aggiudicati il premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di Berlino.


Ci sono pero nomi, per ora meno famosi, che sanno unire le doti di autorialità, che sembrano mancare a molti cineasti interessati solo agli incassi del botteghino.
François Truffaut ci ricorda che cosa è un autore recensendo la pellicola Ali Baba et les quarante voleurs di Jacques Becker : ”Da Alì Babà si sprigiona un fascino, o meglio un’influenza affascinante che i film francesi più elogiati di quest’anno non hanno saputo procurarmi. Anche se Alì Babà fosse mal riuscito, lo avrei difeso ugualmente in virtù della politica degli autori che i miei consimili nella critica, e io stesso, pratichiamo. Tutta basata sulla bella la frase di Giraudoux: «Non ci sono opere, ci sono solo autori», essa consiste nel negare l’assioma, caro ai nostri predecessori, secondo cui vale per i film quello che vale per le maionesi, o vengono male o vengono bene”. Gianni Rondolino, nella sua Storia del Cinema ci ricorda che: “[…] il regista diventava il vero autore del film e questo era l’espressione di una personalità d’artista che doveva tenere conto in primo delle propria poetica, dei fatti e dei problemi di una personale visione del mondo, attraverso la quale poter filtrare i fatti e i problemi dell’attualità”.


Il feltrino Stefano Usardi, classe 1977, ha alle spalle una formazione eterogenea e complessa: una laurea in Discipline del cinema, una in Filosofia e un’altra in Storia dell’Arte.
Il protagonista Massimiliano Varrese (Michele), volto famoso della tv, si cala perfettamente nella parte: il regista lo indirizza verso un espropriazione della sua immagine spettacolare lavorando per sottrazione e ci restituisce un personaggio quasi beckettiano.
Michele è un pittore che deve terminare un’opera importante ma lentamente il suo mondo si dileguerà trasportato da incontri, situazioni che incrineranno la sua Weltanschauung (visione del mondo).


Usardi, oltre a circondarsi di attori con cui ormai ha un rapporto consolidato e amicale (Angelo Donato Colombo e l’istrionico Giovanni Morassutti) filtra la realtà attraverso il suo sguardo creando già uno stile definito e ricco filmando i momenti stagnanti. Per citare Michelangelo Antonioni: “Per me il cinema non è sempre spettacolo. Non c’è nessuno che possa sostenere che il cinema è soltanto ed esclusivamente spettacolo. Mi sento veramente la stanchezza di determinati meccanismi ai quali ricorre il film convenzionale, la maggior parte dei film commerciali. Mi sembra che questo meccanismo sia falso. Io ritengo che la realtà abbia una cadenza diversa, la vita abbia una cadenza diversa. In certo momenti è precipitosa, in certi momenti è stagnante. E allora perché noi dobbiamo evitare i momenti stagnanti per occuparci soltanto di quelli precipitosi, di quelli rapidi?”


Mai preoccupato del logos, dell’intreccio, poiché si dipana naturalmente proprio dai momenti di stasi (Michele che cammina per la città, le inquadrature del mare ecc.), questo perdere tempo, questo lasciarsi trascinare dal tempo sfilaccia la diegesi filmica introducendo l’incontro con personaggi e situazioni surreali, grottesche: si sorride in un clima agrodolce in cui la malinconia ci pervade sottilmente.


L’impiego continuo in questa direzione anti-narrativa, fatta di fughe e smarrimenti, è evidente anche nelle direzione attoriale che ricorda la Nouvelle Vague. Come ricorda Alberto Scandola nel recente volume, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità: “Torniamo ora a ragionare sulla recitazione intesa come parusia dell’attore, il quale rivelerebbe la sua verità proprio attraverso lo smarrimento dovuto alla non conoscenza dei dialoghi e della psicologia del suo personaggio. Una delle strategie più utilizzate dalla Nouvelle vague (ma anche da autori quali Bertolucci o Ferreri) per cogliere quella verità è quella di far muovere gli attori, farli errare tra se stessi e il personaggio, tra la loro storia e quelli del film senza comunicare loro precisamente dove andare, cosa dire o con quale velocità attraversare una strada. Come ha osservato Giorgio De Vincenti, il cinema moderno non è solo un cinema esistenziale, ma anche un cinema di viaggio, avventura della conoscenza.


La pellicola ha vinto il premio come miglior lungometraggio e migliore sceneggiatura al Festival Internazionale del Cinema Patologico di Roma oltre che essere nella selezione ufficiale del Festival Nazionale del Cinema e della Televisione di Benevento e finalista al Rieti & Sabina Film Festival, solo per citarne alcuni.


Un’idea di cinema, quella di Usardi, alla ricerca della felicità, con uno sguardo sempre altrove, che trae suggestioni dal passato e affronta la complessità del presente componendo uno stile personale che unisce una scrittura precisa e una regia ariosa e vivace. Attendiamo con impazienza la prossima pellicola “Fra due Battiti” la cui lavorazione inizierà a breve.

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