Avete presente il gioco per cui con una mano ti batti in testa in senso orario e con l’altra sfreghi la pancia in senso antiorario? Ecco, per seguire la trama di un film di Wes Anderson e allo stesso tempo guardare le immagini, devi adottare lo stesso principio di coordinazione e, ovviamente allenarti.

Se lo vedi in originale con i sottotitoli in italiano, ma sai l’inglese, te la sfanghi con una schizzinosa uscita snob perché le scritte disturbano il giusto (ma quanto è il giusto? E perché soprattutto è giusto?).

Ma se non sai l’inglese e non vuoi abbracciare il doppiaggio perché l’italiano è troppo ampio (e anche se quello italiano è tra i migliori) perché snatura il prodotto ai fini della tua critica cinematografica, che, alla fine, sarà l’esito di un intervento mediocre sugli scalini del cinema Troisi (immaginate come quelle della Scuola di Atene),

devi necessariamente procedere a tradurre, senza, però, cadere nelle tentazioni filologiche degli effetti della traduzione, sennò è la fine e ti rompi i legamenti.

Se rende o non rende bene il significato che voleva veicolare lo sceneggiatore con le parole scelte, non è tuo compito, se una parola può cambiare tutto, ma tu non la sai e non puoi mettere in nota il tempo per cercarla sul dizionario, non è una colpa.

Wes Anderson, lo sguardo d’insieme

Allora succede che, ovviamente, in simultanea devi: prima abbandonare le pretese di carpire questo tutto per il cosiddetto sguardo d’insieme che ancora non puoi avere, per alleggerirti dalla frustrazione, poi devi avventurarti con i personaggi (e non gli attori) che non sanno quello che li attende, e convincerti che alla fine sei lì per piacere. E, ancora, devi spostarti sulle prove cognitive: legare il parlato allo scritto e poi lo scritto alla scena visiva, ma in uno scarto di tempo di cui neanche devi accorgerti, in uno squat orbitale veloce, uno scatto di foto, prima che la scena finisca con il liquido lacrimale, perché risparmi tempo sullo sbattere delle palpebre.

Quindi, non bisogna farsi prendere dall’ansia di poter lasciare indietro qualche parola mandata a capo sotto una cartolina che fa da sfondo (che forse, però, è un dettaglio importante) al pensiero del perché l’ha voluta appendere sopra la coloratissima carta da parati della stanza perfettamente geometrica del protagonista, fatta a quadri, righe e fiori in un putpurrì esplosivo che fa cadere nel tuo occhio del ciclone roteante, l’altro, in una mutazione ciclopica.

Sul precipizio dello sbaglio, molto vicino anche allo sbadiglio di assestamento, non devi pensare che lo strabismo riuscito sia un criterio per verificare che anche lo stile della fantasia lo sia. Tutto questo artificio, solo per rimanere nella lettura denotativa che ti dà quell’apparenza di sostenibilità con un green screen impercettibile e poco bombardato di strati svolazzanti.

Un home run riuscitissimo

Se poi, vuoi procedere all’interpretazione connotativa del film devi aspettare i tuoi tempi personali, nel caso in cui tu non abbia la capacità di capire al volo e prendere lo slancio orbitale adeguato, perché sei stata presa alla sprovvista da un home run riuscitissimo. Home run significa che il fuoricampo, che traduce sia il linguaggio dello schermo che stai studiando, sia per dire sportivamente, con la metafora del punteggio del baseball, fin dove il tuo colpo d’occhio è arrivato, sta per tradurre dall’inglese home run, l’ impulso che ti viene di correre a casa con una richiesta di nazionalismo, perchè il colpo di scena ti è sfuggito per qualche lettera di troppo in basso.

Poi, sempre per la fase interpretativa devi aspettare la fine del film, e il tempo per elaborarlo nei giorni successivi, a discrezione della tua memoria e dei punti salienti che seleziona quella emotiva. Quando tutto sembra finire, devi passare per i commenti consumati all’uscita, da preparare come una bozza di mail ufficiale, rattoppati da altri film, parallelismi su paragoni su parallelismi e su paragoni a incrocio, per (solamente) l’eventuale lunghissima dissertazione ragionata a posteriori. Anche se vuoi rimanere in silenzio non puoi perché sennò andavi al cinema da sola e non chiamavi anche i tuoi amici, anche se forse era meglio.

Quindi, ti rimangono i titoli di coda con cui stordire i tuoi compagni accanto che non sanno bene se devono dire subito qualcosa o pensare a quando è il momento giusto per alzarsi mentre tu organizzi le idee poco chiare al buio, in attesa delle luci, simulando uno stiracchiamento.

Insomma, in questi casi non si va al cinema per svago, né troppo tardi la sera, né a fine settimana e non bisogna mai farsi cogliere in inganno dalla durata del film. C’è un motivo se dura poco, c’è un motivo se è stato testato che la capacità di concentrazione oscilli tra gli 8 secondi e i 45 minuti. Ecco perché Wes Anderson si è dato ai cortometraggi (Veleno, La meravigliosa storia di Henry Sugar, Il derattizzatore, Il cigno) di storie prese in prestito da Roal Dhal, su Netflix, per sopravvivenza. 

Ma se tiene al suo stipendio non dovrebbe far venire voglia ai suoi spettatori di diventare aspettatori del suo film disponibile in piattaforma, dove finalmente possono bloccarlo quando vogliono, ad intervalli di combinazioni tra audio e sottotitoli per trovare l’equilibrio migliore tra i propri scopi formativi, visivi e cognitivi, senza aspettare un fine primo tempo che non arriva, unico spazio ricreativo e ossessivo man mano che la vescica si riempie, prima di scoppiare.

Insomma Wes ci vuole far perdere i pezzi del suo film, mentre raccattiamo i nostri organi sensoriali  smembrati alla mister potato con occhi, orecchie e testa scomponibili, dopo aver serrato, con il buio in sala, anche le saracinesche della mente ad ogni pensiero che interferisce dal proprio mondo personale per scendere sulla fronte e poi intrufolarsi nel mondo filmico, che al cinema è ancora più grande, soprattutto se la storia parla di universi e galassie. 

Wes Anderson ci vuole accattivare con i costumi, i colori le favole per farci credere di tornare bambini, ma il gioco ci trae in inganno quando lo associamo all’infanzia, non è sinonimo di facilità. 

E’ colpa degli adulti se ci prendiamo la responsabilità di capire il film, cosa che i bambini non si impongono, o di trovarci tesori nascosti sotto i vari livelli della crosta terrestre per trivellarci la testa e trovarci del petrolio. Esattamente come le figlie del fotografo di guerra che hanno appena saputo di aver perso la mamma, e la vogliono seppellire dove vogliono loro, accanto ad un benzinaio, vorrei potermi riappropriare dello sguardo laterale della vita, che non va in verticale profondità, ma in orizzontale trasversalità, anche se dovessi trovare del deserto per chilometri.

Dentro ogni inquadratura c’è un quadro, ma non sei ad una mostra. Sei a farti bombardare per qualche secondo dai colori caldi come se il test atomico dentro Asteroyd city fosse vicino a te, senza occhialetti 3D per vedere l’effetto della matriosca dei set nei set del film, vicino ai tuoi occhi rimpiccioliti e sovraesposti.

Certo, poi, vedere il successo del trand oppenheiriano della bomba atomica per ricordarci che siamo su una terra che tiene un disastro in cassetta pronto ad arrivare ha un certo peso emotivo e vale doppio se vedi uscire questi due filmoni, proprio tutti e due, insieme, nello stesso mese.

Ma devo ammettere che la poesia di questo film si fonde con un altro tema politico molto attuale e incandescente, la patata bollente dell’Europa settembrina, sempre più ottobrina e in avanzamento; l’ottica migratoria dell’alieno che all’improvviso viene per scombinare il festival dell’americanissimo anniversario del meteorite, un luogo desolato appropriato per l’allestimento della propaganda, scenario similissimo al test atomico di Oppenheimer ma anche ai deserti del Niger (ricorda il film: Io Capitano) di tutt’altro uso e consumo di corpi.

Nessuno si aspetta che quella pallina venga sottratta, lanciata come il boccino dall’ arbitro, ma l’alieno, sceso dal cielo con la sua navicella spaziale, chi ha detto che la sta rubando? forse se la riprende? e poi, comunque, la riporta. Bello, allora, vedere le bocche aperte dei conferenzieri potenti davanti a questa scena. Non sanno che dire.

Fatto sta che per quanto si recinti la geografia, non si può frenare una navicella dall’alto.

Home run! Vedetelo! è un modo per dire di fare il vostro punto, non per dire tornatevene a casa!.

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