Nella pellicola Inception di Christopher Nolan, Leonardo Di Caprio si inserisce nei sogni delle persone per rubare i loro segreti. Il sogno diventa il campo da gioco per compiere questa operazione. Il nostro interesse però non si situa nel sogno, ma nella possibilità immaginifica di creare nuovi spazi, nuovi ambienti, nel permutare o nell’attuare la realtà. Si potrebbe porre una domanda curiosa: e se il cinema non fosse altro che il tentativo di un cineasta di costruire la sua abitazione, il luogo ideale in cui vivere, in breve, la città inesistente in cui permanere?

Se il cinema e la visione nascono sempre da una lacuna, da una mancanza, come ricorda Paolo Gambazzi, «L’occhio vede a partire dalla propria cecità». Questa lacuna che mi permette di vedere si colma improvvisamente della potenza immaginifica dell’autore.

Molti registi sono attratti e dedicano diverso tempo nello studio dei luoghi in cui ambientare le pellicole, da sottolineare anche la dedizione e la cura che pervadono le scelte. Un cineasta, alla stregua di uno scrittore, usando pellicola, luce, punto di vista sul mondo, fonda delle città ideali in cui abitare, o delle città immaginarie in cui nascondere ricordi, amori, esperienze. Il regista è un imbroglione e come ricordava Brian De Palma: «La macchina da presa mente in continuazione, mente ventiquattro volte al secondo».

La città reale non soddisfa l’immaginario cinematografico e quindi la soluzione è forgiarne una sola operando un collage di luoghi distanti migliaia di chilometri. In Inception, o nella pellicola della Marvel Doctor Strange, le metropoli e i palazzi si deformano, cambiano aspetto, sfidano ogni legge fisica creando paradossi come quelli che ritroviamo nelle opere di Maurits Cornelis Escher.

Gli esempi sono innumerevoli: Dario Argento in Profondo Rosso inizia la prima inquadratura nel mausoleo di Santa Costanza a Roma ma il teatro e la piazza, in cui avviene il primo omicidio, sono a Torino; per non farsi mancare nulla costruisce, sempre nella Piazza C.L.N. della capitale piemontese, un locale identico a quello riprodotto nel famoso dipinto di Edvard Hopper Nighthawks.

Il cinema post-moderno pare abbia una onnivora voglia di erigere dei luoghi dell’anima da riempire. Il regista però non è mai pienamente consapevole delle sue scelte, non riesce a controllare gli eventi, spesso ne è in balia, analizziamo ad esempio Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Fin dall’inizio è difficile trovare un protagonista che voglia vivere nella giungla diciassette settimane. Come scrive Vito Zagarrio: «…Alla fine, dopo disperati tentativi, alla ricerca persino di attori sconosciuti, nei panni di Willard finisce Martin Sheen, che Francis ha incontrato casualmente all’aeroporto di Los Angeles. Il 18 maggio il tifone Olga distrugge scenografie e materiali tecnici… la troupe torna negli Stati Uniti. Fine luglio: riprendono le riprese a Pagsanjan, un villaggio vicino Manila. Il 7 agosto si gira la sequenza del ponte di Do Lung, una delle più costose del film: il ponte (un edificio distrutto dalla seconda guerra mondiale e dal tornado) deve essere ricostruito per poter essere distrutto con gran spreco di dinamite. 3 settembre: inizio delle riprese con Brando. Il 5 marzo del ’77 il malore di Sheen (si riprenderà con cautela, più di un mese dopo). Il 21 maggio ’77, un anno e due mesi dopo l’inizio, le riprese si concludono, e inizia un’altra tormentosa fase di montaggio e di edizione, che dura sino a pochi giorni prima del Festival di Cannes (maggio ’79)».

Nel caso analizzato gli eventi, il tentativo di erigere un immaginario luogo magico, viene travolto dalla situazione, Coppola subisce le medesime forze che lui cerca di sottomettere: la pellicola diventa un ricettacolo di spaventose paure e disgrazie.

Possiamo quindi rispondere affermativamente alla domanda iniziale: il cinema non è altro che il tentativo di costruire il luogo ideale in cui vivere, in cui si esprime l’immaginifica potenza del suo autore. Ricordiamo però che il cineasta non è mai in grado di gestire la sua potenza proprio perché ognuno di noi non è mai un soggetto, perfetto e univoco, come ricordava il poeta Arthur Rimbaud « […] È falso dire “Io penso” si dovrebbe dire “Mi si pensa”. – Scusi il gioco di parole: IO è un altro.»

Condividi: