“Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua […] sono cominciate a sparire le lucciole”. Lo scriveva Pier Paolo Pasolini nel febbraio del ’75 ed ergeva le lucciole a simbolo doloroso di quel che è successo in Italia fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta: il boom economico, la vera rivoluzione industriale italiana, quella che ha riguardato tutta la penisola portando ricchezza e speranze. Alla quale è seguita una delle varie crisi sistemiche del nostro modello economico. Alcuni intellettuali ed artisti a quel punto aprirono gli occhi e i lati negativi del boom li videro. Lo scempio ambientale, per esempio. Ma molto più di quello, il cambio di mentalità.

E la mentalità della crescita e del consumo oggi, cinquant’anni dopo, è difficile da ricalibrare in altra direzione nonostante gli effetti dannosi siano sotto gli occhi di tutti. In un recente articolo il professor Guido Giordano si chiedeva, analizzando il rapporto fra covid e inquinamento dell’aria in Pianura Padana, perché i padani non pretendono il loro diritto alla vita. Da padana acquisita (ma vale lo stesso per l’interland di Firenze dove sono nata), me lo chiedo anch’io e condivido molte delle curiosità, azioni e conclusioni che l’articolo espone riguardo alla pandemia. La situazione di Milano poi è quella che ha esposto recentemente la onlus Cittadini per l’Aria: 1500 persone che all’anno perdono la vita per l’esposizione al biossido di azoto ben oltre la soglia dell’OMS di 20 µg/m3. Pasolini – che nei suoi interventi sul Corriere della Sera, Paese Sera e altre testate (raccolti nel volume Scritti Corsari) analizza il suo presente – definiva il consumismo che spazza via il vecchio mondo pre-boom con l’inquietante locuzione di “genocidio culturale”. Al poeta non sfuggì il collegamento fra mentalità nuova, distruzione degli ecosistemi per speculazione edilizia o creazione poli commerciali/lavorativi, consumo di suolo/di oggetti/di combustibili non rinnovabili e omologazione culturale. Nella maniera acuta, polemica e combattiva che lo caratterizzava, cercò di passare questa sua visione desolante. Sempre dagli Scritti Corsari è chiaro che il suo punto fu capito molto dopo.

La faccenda Celentano-Gaber

Il poeta friulano è l’ennesima Cassandra di cui vi parlo, forse una delle più celebri. Curiosamente uno degli indizi di quello che stava succedendo, mentre il boom era in corso, nove anni prima del discorso sulle lucciole lo aveva fornito un contesto inaspettato: il mondo pop. Nel 1966 – e proprio a Milano – c’era stata la faccenda Celentano-Gaber che vale la pena riportare. Credo infatti che le canzoni (e la poesia) integrino molto bene, in Italia, il ritardo del discorso ecologico in fiction. A dire il vero la parabola cantautoriale italiana intercetta, tra i Sessanta e i Settanta, i temi che in ambito anglosassone troviamo nei libri: il devasto ambientale e l’alienazione nell’Italia oramai inevitabilmente industrializzata (Roversi e Dalla, Endrigo), l’incubo radiattivo (Bertoli, Guccini). Molti dei pezzi a cui mi riferisco li trovate nella playlist che ho stilato per ReWriters su Spotify.

Gaber e Celentano misero a confronto due storie, due narrazioni. Nel Ragazzo della via Gluck, Celentano parla di un ragazzo di periferia che si trasferisce a lavorare in città ma non è felice perché si rende conto che nella campagna che lascia ci sono risorse naturali che lo fanno stare bene. Quando torna per comprare la casa natale, Milano si è già mangiata la via Gluck e il verde non c’è più. Familiare, non è vero? Giorgio Gaber (che fu tra i primi a farne una cover) racconta invece nella Risposta al ragazzo della via Gluck di un ragazzo inurbato dallo stipendio modesto con la madre a carico addirittura indebitato per comprarsi i mobili. Il ragazzo desidera un appartamento a fitto bloccato perché deve sposarsi: non ci andrà mai ad abitare perché il palazzo viene demolito in seguito a un piano verde. L’eroe perde la casa – e anche la fidanzata – perché il suo sogno è stato abbattuto per un parchetto di periferia.

Gaber e Celentano erano amici, avevano condiviso già molto su piano lavorativo e personale nel 1966. Ho scritto dissing ma in maniera ironica: lungi da me metterli l’uno contro l’altro. Il loro contrasto è una specie di confronto bonario, come se Giorgio dicesse ad Adriano: “Capisco il tuo discorso, ma i milanesi la pensano così”. A noi posteri, e con il filtro di Pasolini, però questa storia serve molto a riflettere su idee che ancora condizionano la mentalità di molti.

La frase “Là in centro io respiro cemento” sembra molto più concreta oggi con i dati alla mano: 1500 persone che all’anno perdono la vita per l’esposizione al biossido di azoto non sono uno scherzo. Il discorso di Gaber invece – riportato in personaggio (il personaggio del Milanese Imbruttito in tempi non sospetti) – era perfettamente in linea con la mentalità mainstream dell’epoca: bella l’erba, ma la città deve svilupparsi e accogliere chi cerca lavoro. In nome di questa idea se ne fanno ancora di interventi non necessari, ne leggo almeno uno al giorno. Li snocciolo così a caso: la risaia di Altedo che rischia di essere distrutta per un polo logistico, l’invadenza del progetto di ampliamento dell’aeroporto di Firenze non certo popolare fra chi vive nella zona che mette a rischio fra le altre cose un’oasi del WWF, la minaccia apparentemente scampata di radere al suolo i Prati di Caprara bosco urbano bolognese … Tutti coloro che hanno deciso che le risorse naturali non valgono le opportunità – tutte umane – che può portare la loro demolizione seguono il discorso del personaggio di Gaber accusando i vari “ragazzi della via Gluck” di essere contro lo sviluppo economico della zona. Probabilmente anche i padani che non “pretendono il loro diritto alla vita” hanno assimilato talmente tanto il ragionamento del Milanese Imbruttito di Gaber che non riescono ad uscirne, nonostante gli effetti che questa mentalità ha creato vadano dritti nei loro polmoni. E quindi poco importa della distruzione degli ecosistemi, dell’aria, degli equilibri, delle piante e degli animali. Per Celentano, intuitivamente, questi costituivano un valore violato già a metà anni Sessanta. Per il Milanese Imbruttito di Gaber no.

Cinquant’anni dopo leggiamo Pasolini, criticamente beninteso, e ci è chiaro quel che aveva intuito e perché molti dei suoi scritti hanno un tono disperato. A tratti lo condividiamo, quel tono: la malinconia per la scomparsa delle lucciole, oggi che la perdita degli ecosistemi e della biodiversità è un problema all’ordine del giorno, la sentiamo tutta. Il consumismo omologante che il poeta odiava con tutto se stesso ha raggiunto vette distruttive che probabilmente neanche lui immaginava – senza tuttavia accennare a convertirsi veramente in altro. A Milano intanto è sorto un bosco verticale per mano degli architetti della Stefano Boeri che il debito di ispirazione con Celentano lo dichiarano. Cinquant’anni dopo lo sappiamo che aveva ragione il ragazzo della via Gluck ma molti continuano a pensare e – ohimè – ad agire come il Milanese Imbruttito di Gaber. Magari aggiungendo aree green alle zone antropizzate costruite sui vecchi ecosistemi demoliti.

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