Ho sempre scritto il peggio di me, le verità più cupe, i più selvaggi borborigmi interiori, su quaderni dalla copertina dura, di colori diversi, da tempo immemorabile. Ho contratto questa abitudine appena sortita dall’infanzia, quando ho incominciato a prendere le misure del tempo e ho iniziato a preoccuparmene, come se fosse un mio personale problema, il fatto che dobbiamo morire. Occupa un’intera parete, ormai, la parete della mia camera da letto, questa produzione senza sbocco, questo sussidio alla fatica di esistere. Non li rileggo mai, i quaderni. Non consulto le mie infelicità passate.

Nei quaderni non viene mai registrato il momento felice. Grondano, perciò, angoscia e lavoro. Nelle giornate migliori sono studio disordinato e confessioni viziate dall’inquietudine. Sono appunti nervosi e poesie sbilenche. Ritratti d’altri (magnanimi) e autoritratti (maligni).  Sono tristi i quaderni, tristi e severi. Severi e tristi. Qua e là intelligenti, come capita, talvolta, alla scrittura privata, nata per non uscire dai cassetti. Hanno una sola funzione, interessante: sono testimonianza della costanza con cui si soffre nella vita. Impediscono di zuccherare il passato.

Apro a caso e ritrovo me stessa quarantenne. Siamo nel 1996. Leggo: “Mi sveglio alle 2 e 35 perchè Maddalena grida ‘nonno’ nel sonno. Mi risveglio alle sette perchè M. si alza a prendere un AlkaSeltzer. Entrambe le volte resto sveglia una buona mezz’ora a pensare. Tutto mi sembra un peso. Tutto è sulle mie spalle. Penso al futuro in termini di preoccupazioni…Tutte le sere mi addormento sulle pagine di un libro. Il sonno sopraggiunge sotto forma di assenza di senso alle righe, poi alle frasi, poi alle singole parole: mi addormento pensando che la giornata è durata poco. E’ già un ieri. E’ già un passato… Ogni scena della mia vita è senza vita. Sono ossessionata dalla ripetizione. Penso che preferirei morire piuttosto che essere impantanata nell’assenza di desiderio… Considero il mio aspetto fisico e psichico come la copia di un quadro che ho detestato fin dall’infanzia: le madri, le donne grandi. Inguardabili”.

Devo proseguire? Poche pagine più in là me la prendo con il mio innocente compagno: “Certe volte, quando M. fischietta mi viene voglia di assassinarlo. Penso che suo padre fischiettava. Era un tipo che usava l’allegria per non partecipare alla vita, per chiamarsi fuori. Penso che se M. è come suo padre io diventerò come mia madre: intollerabile…penso a mio figlio, penso che quando sarà adulto gli incontri con lui saranno degli incontri come tanti altri incontri della vita. Non potrò più difenderlo, nè essere felice con lui e per lui…”.

Dunque ero una quarantenne con un figlio adolescente, una figlia quasi ancora bambina (adottata), una sorella morta da tre anni e una madre ricoverata in seguito a fatti ischemici. Figli da crescere e lasciar andare. Genitori faticosi e bisognosi.

Chi ha detto che la vecchiaia è la stagione peggiore? Io a quarant’anni ero a pezzi. Se una adorabile strega sulla sessantina inoltrata mi avesse avvisata che poi la vita sarebbe diventata più facile mi sarei rilassata.

Ma quella del 1996 non era una ageless society. E ciascuno si curava i suoi incubi. Giovanotte del 2021, se mi volete, io ci sono: fornisco gratis, consulenze esistenziali.

Vi consiglio un libro. Sembra un libro per i bambini, forse per le illustrazioni dolci, ma invece è un libro per adulti. Poetico e lirico, e riflette sulle età. E’ scritto da Alison McGhee (Autore), Peter H. Reynolds (Autore), M. Barigazzi (Traduttore), e si intitola Un giorno. Fazzoletti.

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