Pochi giorni fa, alle 6.50 del mattino mi sono imbattuta nel direttore della clinica dove lavoro nel pubblico, dove opero i miei ragazzi transmen, quindi dove svolgo attività non di chirurgia estetica e medicina estetica.

Un uomo estremamente concreto, grandissimo lavoratore, sensibile ma sufficientemente distaccato per lavorare nella sanità a livello dirigenziale. Mi ha sparato tutto un discorso sul bello e buono dei greci antichi che a quell’ora francamente mi ha lasciata stordita. Felicemente stordita! Ed ho studiato e riflettuto su questo nei giorni successivi.

Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con gli studi classici, ha avuto modo di imbattersi, prima o poi, in quella che gli antichi greci chiamavano la kalokagathìa (καλοκἀγαθία). Si tratta di una parola intraducibile, se non con una perifrasi che racchiude al suo interno i concetti di bellezza e di nobiltà d’animo. Dal punto di vista strettamente etimologico la kalokagathia non è altro che la contrazione di due aggettivi che nella letteratura greca ricorrevano spesso in coppia: kalós kai agathós, bello e buono.

Impossibile dimenticare le descrizioni con cui Omero presentava i suoi eroi: giovani e belli nell’aspetto, ma anche valorosi, virtuosi, e pronti a combattere con grande coraggio. Ecco appunto, bello e buono. Per il popolo che ha dato vita alla democrazia, ciò che era bello era necessariamente anche buono. La bellezza come dono concesso dagli dei ad alcuni uomini, prescelti per compiere nobili azioni. L’aspetto esteriore di una persona, insomma, era destinato a riflettersi nel suo comportamento.

Questo ideale, spiegano gli studiosi, attraversò tutta la cultura dell’Ellade fino ad arrivare ai raffinati Sofisti, i filosofi che, con le loro idee, ravvivarono la scena culturale dell’Atene del V secolo avanti Cristo. Per i filosofi di quest’età dell’oro, la kalokagathia era un qualcosa che caratterizzava la figura di quello che allora era il saggio e che oggi forse chiameremmo l’intellettuale, colui che coltiva la virtù e si differenzia, in modo consapevole, dalla massa.

Vale la pena ricordare, infine, che i greci tenevano in grandissima considerazione l’esercizio fisico: passeggiate ed esercizi ginnici facevano parte della routine di tutti. E la propria bellezza, fisica e intellettuale, doveva essere oggetto di una continua educazione, di un costante allenamento. Non è un caso che in ogni città greca fossero presenti i ginnasi, i luoghi dove i giovani si allenavano in attesa di disputare le gare ed esibivano la nudità e la perfezione dei loro corpi durante le salutari sedute quotidiane. Con il passare del tempo, il ginnasio divenne il luogo deputato all’educazione a tutto tondo delle nuove generazioni, un punto di incontro ma anche di formazione.

Il mio lavoro, che riguarda molto da vicino la bellezza, mi ha portata più volte a riflettere sulla stretta correlazione che lega il corpo e la mente.
A una prima considerazione, l’atteggiamento dei greci potrebbe sembrare superficiale ai nostri occhi. Perché se è vero che tutti noi continuiamo, più o meno consciamente, a essere attratti dal bello e dalle persone con un aspetto fisico gradevole, al tempo stesso la sensibilità contemporanea per fortuna non accetta più la condanna di ciò che è brutto o diversoEd è innegabile che il valore che noi diamo alle persone deve assolutamente prescindere dalla gradevolezza del loro apparire.

Però trovo che in qualche modo i greci avessero colto una qualche verità, e che il loro ideale contenesse spunti che sono interessanti ancora oggi. Certo è che non esiste alcun automatismo tra bellezza e bontà: si tratta di un pregiudizio inaccettabile. Ma trovo altrettanto assurdo il pregiudizio opposto che presuppone invece una correlazione tra bellezza e cattiveria, o stupidità, o superficialità.

Trovo che nel bello, e nella sua ricerca, non ci sia niente di esecrabile. L’aspirazione a migliorare il proprio aspetto, anche ricorrendo a un intervento di chirurgia estetica, è un diritto legittimo di una persona che non merita di essere giudicato, né tantomeno demonizzato. 

Nel mio articolo sulla prima chirurga estetica donna, Suzanne Noell, racconto come la sua attività di chirurgia estetica anti-aging negli anni ’20, aveva come scopo quello di rendere le donne più forti e più autonome. Era un pensiero femminista. Era una donna, intellettuale, dedicata alle donne e, da suffragetta , fondò un movimento che ancora esiste e che all’epoca lottó con forza per i diritti delle donne: le Soroptimist.

Quindi senza voler difendere la mia categoria , che spesso é indifendibile, e disprezzando profondamente le esagerazioni e gli stereotipi, posso dire con convinzione che una persona che si sente a proprio agio con la propria esteriorità, abbia di riflesso una interiorità più serena, meno travagliata. E che davvero, quindi, la sua armonia esteriore possa finire per riflettersi nel suo modo di porsi nei confronti degli altri. Quindi bello è buono? Non sempre, ma può aiutare.

Consiglio una lettura illuminante, Kalòs kai agathòs. Il bello e il buono come crocevia di civiltà, a cura di Giuseppe Limone, in cui i vari autori si interrogano sulla kalokagathìa in rapporto alla contemporaneità: in ciò che le nostre macchine intelligenti promettono, si può nascondere la radice di un trauma e durevole, che rischia di distruggere definitivamente l’ultimo senso dell’umano?

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