Ci sono voluti 1200 chilometri, 5 giorni, 87 sigarette, 42 lattine di birra scadente e diverse decine di litri di diesel per riuscire a trovare un barlume di radicalità nel mondo dello skateboard veloce. Questo non vuol dire che l’approccio a un certo tipo di discipline nel nostro paese non sia sempre sincero, l’origine del problema sta in un’equazione traslabile in gran parte delle esperienze del vissuto degli esseri umani, cioè nel confronto tra un fenomeno nuovo e la cultura che l’ha generato. Ma andiamo con ordine.

Fino alla fine degli anni ’90 lo skateboard in questo paese era sinonimo di anime contro, di capelli rasati, pantaloni larghi, musica hardcore, musica hip hop, graffiti, cemento, palazzi, sudore, passione e ossa rotte. Poi qualcosa è cambiato, è arrivata la moda e la moda si è comportata da moda e ha fatto le montagne russe, portando alle stelle la disciplina per poi farla cadere giù.

Cinquanta sfumature di skateboarding

Con gli anni, poi, lo street skate si è faticosamente ripreso i suoi spazi, ma quando ha rialzato la testa si è reso conto di non essere più solo. Ci sono infatti diversi modi di utilizzare una tavola da skate: si può saltare dentro una piscina vuota per disegnare linee pulite su infinite pareti di cemento, si può volare di sotto da una gradinata scivolando su qualche corrimano, oppure saltare giù da muretti e panchine; altrimenti si può prendere un legno un po’ più lungo del normale, buttarsi a capofitto lungo sinuose lingue d’asfalto e fare del downhill skateboard.

I ragazzi che montano questo tipo tavole sono diversi dai classici skater che popolano le nostre periferie ma, soprattutto, sono sempre più numerosi e sono spesso visti con sospetto dai puristi della disciplina.

Ma da dov’è che vengono?
Come sempre, quando si parla di tavole che scivolano, all’origine di tutto c’è il surf. E, a ben vedere, molto prima che i grandi campioni dello skateboard cominciassero a buttarsi in qualche enorme halfpipe, la tavola lunga stava già sotto i piedi di qualche cavalca onde.
Il longboard skate nasce infatti alle Hawaii alla fine degli anni ’50, come risposta alla frustrazione dei surfisti che, troppo spesso, si trovavano a dover passare lunghe ore fuori dall’acqua in attesa della giusta mareggiata. Ben presto si accorsero che, attorno a loro, dolci colline e aspre montagne offrivano lingue d’asfalto che rompevano come infinite onde di cemento; da lì a provare a surfarle, mettendo quattro ruote sopra un asse, il passo fu breve. I surfisti sono quasi una tribù e tra le tribù, si sa, si fa presto a trasmettersi le conoscenze acquisite, così non ci volle molto perché questo passatempo si diffondesse fra i giovani surfisti Californiani.
Il Downhill fu quindi la disciplina originaria da cui tutto quanto ebbe inizio. Perciò mi è sembrato importante capire se c’è qualcosa di fondato nella ritrosia di molti nei confronti di questa nuova disciplina.

Il contalitri del distributore di gasolio continuava a salire, mentre tentavo di fare il pieno a un furgone Transit del 1982 la cui combustione andava contro qualsiasi norma di buon senso ambientale; insieme a due compari stavo andando a nord per il più importante raduno di skateboard downhill di questo paese e portare quel bestione, che non fa più di 80 km all’ora, in una città abbandonata quasi al confine con la Svizzera, non era uno scherzo da poco.
“State attenti ad andare lassù, la puzza degli zingari e dei comunisti la sentono a chilometri di distanza, stavolta vi fanno fuori!” ci aveva detto un amico. La situazione si prospettava interessante però, skater da tutta Europa si ritrovavano in quella che doveva essere una città dei balocchi – una sorta di Las Vegas brianzola, con tanto di cupole e minareti – ma che ben presto si era trasformata nell’incubo lisergico di uno dei personaggi di Mad Max. Non era una cosa che ero disposto a farmi sfuggire.

Consonno – la nostra città dei balocchi –  è così piena di spunti di surrealtà (cemento scrostato, ruggine, graffiti, tubi, torri e mattoni scrostati spuntano come funghi da una vegetazione rigogliosa, spalmata su di una collina che si specchia nelle acque cristalline di un lago) che, una volta arrivati, pareva di trovarsi su un palcoscenico messo appositamente lì da Dio per solleticare le fantasie di noi figli dello skating anni ’90, cresciuti con i giornalini Skate a plasmare un immaginario fatto di hardcore e skate and destroy.

La realtà, però, porta spesso i sognatori a dover fare i conti con il materializzarsi dei propri desideri e a doversi confrontare con la rappresentazione materiale delle proprie illusioni. E la cosa non è quasi mai bella.
Lo stesso è successo in quei giorni. Per quanto lassù, su quelle montagne, ci sia stato tutto quello che ci doveva essere: il cuore, la passione, lo skating pesante e la distruzione apparente, l’apparizione materiale degli elementi che quella situazione surreale aveva in potenza è avvenuta lasciando da parte uno dei fattori più importanti: l’aspetto controculturale come legame costante della comunità.

Si skatea, si sta insieme e si condivide un mondo, ma è sempre più difficile costruire delle regole comuni che lo definiscano quel mondo, autonome e distinte da quelle della società e, soprattutto, trasportabili nel quotidiano.
Tutto sembra lì perché qualcuno ha permesso che ci sia, non perché gli skater si sono presi lo spazio per poter far vivere una propria realtà, distinta da quella normale e proiettata oltre alla logica vacanziera di una due giorni di divertimento.

I bagni di realtà però non sono sempre soltanto negativi; a ben vedere infatti, in quell’esperienza, qualcosa sotto le braci di un passato glorioso sembra ancora bruciare e, se soffia il vento giusto, non è detto che l’incendio non divampi di nuovo.

Un consiglio, guardatevi il documentario Dogtown and the z-boys e tutta quanta la trilogia di Mad Max.

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