Il surf non è nato come fenomeno sportivo circoscritto allo sviluppo atletico della tecnica, bensì come disciplina complessa che aveva definito i propri praticanti abituali a tal punto da far sì che essi sviluppassero una vera e propria cultura del surf, un codice di comportamento specifico, determinato da norme sociali che non sempre si adattavano a quelle correnti. A un certo punto della sua storia il surf è diventato cultura, poi il sistema se n’è accorto.

Associate al surf troviamo oggi sempre la stessa serie di immagini precostituite: una qualche spiaggia dall’acqua cristallina e un ragazzo alto, muscoloso e dai capelli ben curati – immancabilmente bianco caucasico – con una tavola da surf sotto braccio. Nella pubblicità a mezzo schermo quello stesso ragazzo, pochi attimi dopo essere entrato nell’inquadratura, fa due passi in avanti, si gira a favore della telecamera, sorride e, correndo, si butta in acqua; seguono cinque secondi di manovre su di un’onda blu cobalto, quindi la dissolvenza porta in primo piano uno a caso tra i marchi più blasonati dell’industria occidentale.
Questa rappresentazione si sussegue svariate volte al giorno, su tutti i canali televisivi, per essere poi riprodotta, come statica rappresentazione patinata, sulle pagine dei pochi giornali di carta che ancora si riescono a stampare o sugli onnipresenti cartelloni pubblicitari.
Nonostante l’immagine del ribelle senza una causa che ai surfisti piace ritagliarsi addosso, la cultura del surf è stata fagocitata dal sistema, assorbita nelle maglie del consumismo, digerita e riproposta in una versione edulcorata e innocua. Non è sempre stato così, e così non è detto che debba rimanere.
Conoscere le proprie radici aiuta a tenere la barra dritta e a proteggersi dagli inganni del presente.

Photo: Jeremy Bishop

Living the past. Quando i primi surfisti apparirono sul palcoscenico della società statunitense, all’inizio degli anni ’40, quello di cui erano portatori era una cosa che non si era mai vista.
Il 16 novembre del 1952, sul New York Times, il poeta John Clellon Holmes, pubblicò il suo famigerato articolo This is beat generation dove, per la prima volta, si portava all’attenzione del grande pubblico il termine Beat, che lo scrittore aveva sentito usare dal suo amico Jack Kerouac. In quel periodo Buzzy Trent e un piccolo manipolo di surfisti californiani vivevano già alle Hawaii e stavano mettendo le basi della cultura del surf, sperimentando uno stile di vita pionieristico, dormendo in capanne sulla spiaggia senza luce, né acqua corrente, tirando avanti senza un lavoro e senza una prospettiva che andasse oltre al cavalcare mostri liquidi di venti piedi, servi devoti di un dio ostile alla società americana: la natura.

Prima di loro, erano gli anni ’30 del secolo scorso, Tom Blake – uno dei pionieri di questo sport – si era trasferito sulle isole e, assieme a innovazioni che traghettarono il surf verso la modernità, sviluppò un pensiero incredibilmente all’avanguardia. La reverenza verso l’oceano in particolare, e verso la natura in generale, lo portarono a sviluppare un’etica complessa, che abbracciava diversi aspetti dell’esistente, dal vegetarianesimo alla professione dell’eguaglianza di tutte le persone.
Perciò anche se non tutti erano colti, e molti di loro nemmeno così attenti alle istanze di trasformazione di cui la società del tempo era pregna in potenza, il loro modo di essere li avvicinava, di fatto, al più rivoluzionario dei movimenti americani del Novecento.
Ciò che i Beats rappresentavano, infatti, era in gran parte definito da ciò che non accettavano; il punto di partenza per l’intero movimento era l’opposizione. E l’opposizione era ciò che avevano in comune con i pionieri del surf. Non c’era una forte consapevolezza, o una precisa pianificazione intellettuale, tra quei ragazzi californiani che si trascinavano per le spiagge delle Hawaii, quello che c’era era una fortissima pulsione verso la propria passione, che era così forte da separarli da tutto quello che si frapponeva fra loro e il loro obiettivo: via il lavoro, via la carriera, via la famiglia.
Il surf era controcultura nella sua forma più pura.

Photo: Robert Anasch

Il re è morto, viva il re! Qui da noi siamo ben lontani, culturalmente e fisicamente, da quella terra che ha prodotto tali sommovimenti culturali, abbiamo però dato i natali a pensatori che ci forniscono una chiave di lettura utile per comprendere come un movimento, così fortemente controculturale, sia finito per essere trasformato in merce materiale da vendere al mercato delle vacche.
Antonio Gramsci diceva che la crisi di un’egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte quante le classi sociali, ossia non riescono a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre a tutta la società la propria complessiva concezione del mondo.
Kristine Lawler, in Radical: The Image of the Surfer and the Politics of Popular Culture, fa notare che, secondo questo punto di vista, la cultura surf – seppur rappresentante di un gruppo di persone esiguo, in rapporto alla totalità della popolazione – costituiva un problema, in quanto portatrice sana di controvalori.
Era perciò un’anomalia che si è cercato di cancellare, ridefinendo certe tendenze giacobine, tentando di trasformarla in una disarmata macchina di consumo e spingendo per reintegrarla dentro le logiche del capitale. Resistere a queste spinte è il compito arduo di chi, questa cultura, la ama.

Leggetevi Giorni selvaggi. Una vita sulle onde: William Finnegar è un premio Pulitzer, racconta la storia del surf come ossessione della sua vita, e spiega molto bene cos’è un approccio radicale alla disciplina. Una lettura avventurosa e scorrevole che, secondo me, può diventare una avvincente esplorazione per chi si approccia per la prima volta alla disciplina!

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