Mi capita questo libro tra le mani mentre assisto mia madre sofferente, e la vedo spegnersi come una candela nel tempo in cui le sto accanto, attonita.
Racconta di un figlio, di una madre, di un affetto materno negato, di un amore filiale ritrovato, di povertà, treni, politica, bassi, quartieri popolari, guerra, riscatto, musica, sofferenza, lacerazione, paura, menzogna, verità.
Racconta di dignità negata e di solidarietà sincera.
Racconta di altri tempi e racconta di oggi, di scarpe strette, nuove e lucide, lacere e bucate.
Racconta con grazia di una storia vera, accaduta nel 1946, un viaggio di salvezza, solidarietà, speranza e riscatto, fortemente voluto dal Partito Comunista di allora, che decise nel dopoguerra di mandare con il consenso dei genitori i bambini napoletani poveri e senza possibilità nella rossa Emilia, allontanandoli dalla miseria della loro famiglia d’origine e affidandoli ad altre famiglie per mesi, anni o per tutta la vita e a cui restavano legati, comunque, per sempre.

Racconta di Amerigo, con gli occhi e la spontaneità del bambino che fu, che cammina dentro vicoli stretti e sporchi, dietro il passo nervoso della madre, racconta di un padre che non c’è.
Racconta di numeri e passi.
Racconta anche di te, mamma, parla di noi. Racconta come fare pace con il proprio passato doloroso.
Amerigo ama i numeri e conta: conta i passi e le scarpe, e quando trova scarpe nuove dentro strade sporche, vince premi immaginari, regali mai ricevuti.
Mi somiglia, Amerigo, così vicino e così lontano dal mio mondo.
Quando io ero piccola, vedevo solo scarpe, seduta sul tappeto blu, e passavo il tempo a contarle, faticavo a tenere gli occhi volti verso l’alto e così mi concentravo sulle scarpe. Amavo le feste di mia madre, il salotto colmo di gente, l’incedere dei passi: amavo il passo rassicurante di mio padre, mi tormentavo aspettando che mia madre fermasse il suo passo frettoloso per chinarsi sul mio viso, e baciarlo, mentre mi regalava il suo sorriso aperto e il luccichio dei suoi occhi neri. Rimanevo affascinata dall’incedere delle sue scarpe dentro passi di danza e dopo, nella penombra, dalle promesse tra scarpe che timidamente si sfioravano o più spudoratamente si incrociavano. Restavo, ferma, respirando l’emozione di passi leggeri, la passione di passi abbracciati, il pianto di passi mai dati. E solo dopo, mi alzavo, tra scarpe che non smettevo di contare, mentre provavo a dare i miei primi passi, spaventati, incerti e curiosi, a piedi nudi, in cerca delle scarpe giuste da indossare.
Amerigo passa l’infanzia a contare scarpe che incrocia per le vie del suo quartiere e a cercare scarpe giuste da indossare: da piccolo troppo vecchie, o troppo strette, da grande troppo dolenti, mai conformi ai suoi passi, come se le strade da percorrere, vicoli stretti o teatri eleganti, treni maleodoranti o sale piene di musica, fossero sempre e comunque percorse da scarpe inadatte.

Iniziamo dalla fine, perché iniziare dalla fine è sempre più facile, ci illude di percorrere percorsi compiuti e dilemmi risolti, iniziamo dalla mia commozione che si tramuta in pianto, mentre le pagine di un libro che emoziona diventano strade dolenti e difficili da percorrere, per i miei passi incerti dentro scarpe scomode.
Mi sento un po’ Amerigo, lenta nel mio mezzo secolo di storia, e capisco che un libro è davvero bello quando ti ritrovi tra le sue pagine come fossero le tue.
Spesso si inizia dalla fine, per ricominciare: Amerigo torna a Napoli, la città da cui scappa con il treno, lo stesso treno dei bambini che l’ha portato lontano da una madre povera e triste, che non ha mai ricevuto una carezza e non sembra capace di darne, il treno dei bambini che il partito comunista ha organizzato per dare un po’ di luce, speranza, opportunità ai bambini cresciuti nella miseria dentro i quartieri popolari di Napoli. Per qualche mese, bambini senza futuro godono della speranza di potere avere un altro destino, nuovi genitori, nuove aspirazioni, una vita diversa, una vita comunque a metà: metà dentro una miseria ostile e senza amore, metà dentro il calore e il profumo della solidarietà, che quando diventa empatia e affetto non ha più l’odore sgradevole della carità.

Amerigo ancora bambino scappa con il treno verso un destino diverso, prende una decisione difficile che cambierà per sempre la sua vita: quando torna a Napoli ha più di cinquant’anni, la madre Antonietta è morta, ha un fratello mai conosciuto che ha problemi con la giustizia, un altro morto prima che lui nascesse, un nipote da salvare che ricorda lui da bambino, un padre immaginario che tanto immaginario non è, un amico, anche lui nel treno dei bambini, che ha scelto di rimanere a Napoli ed è diventato magistrato, anche grazie all’aiuto dei suoi due altri genitori, ‘quelli del Nord’.
Amerigo che non è più tornato, che ha provato a costruire un destino diverso per sé, diverso da sé, fingendo di non sapere che il passato torna, sempre, e ci devi fare i conti, perché davvero possa esserci un futuro per sé, di sé.

Una madre ostile ma legata al figlio, che al suo ritorno dal Nord, distrugge ogni contatto con la nuova famiglia di Amerigo, nasconde il violino regalatogli dal babbo che non è suo padre, non gli dice delle lettere e del ben di Dio che Derna, la sua madre del Nord, invia ogni settimana e che restano mai consegnati a casa di Maddalena, la compagna comunista che nel 1946 insieme ad altri giovani comunisti organizza il treno dei bambini, dopo una guerra raccontata nel libro con delicatezza dai ricordi dolorosi di chi l’ha vissuta.
Un altro tempo, un’altra Italia, misera e piena di speranza. Ed è proprio Speranza il cognome di Amerigo, mentre Benvenuti il cognome adottivo, in un gioco di parole dove il senso diventa rivelatore di una vita lacerata.
“Sono venuto al cimitero per portarti un fiore. E per la prima volta dopo tanto tempo ci ritroviamo di nuovo io e te, da soli…Ho cercato di parlarti, mi sembrava di doverti dire qualcosa di importante, e invece non mi veniva nulla in mente. Ho sprecato tanta rabbia, che alla fine ne ho dimenticato il motivo. Il cielo è immobile, né bello né brutto, in attesa del tempo che verrà… Ho appoggiato anch’io il mio fiore sulla tua tomba… Il fiore appassirà domani o dopodomani, non importa. Il pensiero di te non sfiorirà, tutto gli anni passati distanti sono stati una lunga lettera d’amore, ogni nota che ho suonato, l’ho suonata per te. Non ho altro da dirti, non ho più bisogno di conoscere le risposte. Su mio padre, su Agostino, sulla tua lontananza e i nostri silenzi. Non ho risolto niente, non ha importanza. Rimango un po’ davanti al fiore… Quello che non ci siamo detti non ce lo diremo più, ma a me è bastato saperti dall’altra parte di quei chilometri di strada ferrata, per tutti questi anni, con le braccia strette a croce sul mio cappottino. Per me è lì che resti. Aspetti, e non vai via, dice Amerigo a sua madre, davanti alla sua tomba.

È solo quando facciamo pace con il nostro passato, quando riconosciamo il dolore primordiale a cui non possiamo sottrarci, che siamo pronti a riconosce anche noi stessi, pronti a crescere davvero, pronti a presentarci dentro il treno che ci porterà di nuovo lontano, non più bambini, con il nostro nome. E tornare a chiamarci Speranza, senza negare di essere comunque Benvenuti, memori del fatto che a volte ci ama di più chi ci lascia andare, e non chi ci trattiene, e che tutto quello che si può fare, si deve fare, anche se questo non ci libera dal dolore.
Lettura consigliatissima

Viola Ardone, Il treno dei bambini. Einaudi.

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