Laggiù in fondo, fra fili e cavi e libri e prese e modem c’è da mesi una sorta di piccolo altarino. Precario, eppur fin da Natale rimasto incredibilmente immobile. Intangiuto, non si dice ma suona bene, statuario nella sua ridotta estetica. Semplice nella sua struttura, col rigore impossibile di qualcosa messa lì per un attimo e dimenticata.

Tre box di panettoni e uno sgabello, che nella vita normale non si dovrebbero incontrare mai. E invece, eccoli lì, opera d’arte involontaria: e a dispetto di tutto l’intrecciarsi di fili e cavi e prese, nell’angolo in fondo del mio studio, lì sono rimasti. In quell’insenatura fra il mobile di metallo nero di dischi e libri e l’argenteo rack dei suoni, non-luogo che, come le province dell’impero, vive di sua vita autonoma.

Loro tre, le scatole stampate con le facce che raccontano tutto intendo, quelle comprate su dritta della moglie al Carrefour al Villaggio Olimpico nelle svendite del dopo Natale, dopo un pò han cominciato a vivere, appunto, di loro vita autonoma.

All’inizio, senza dare segni, neanche un sospetto. Un giorno, sentiamo com’è, ho azzannato a fondo il primo panettone (non era male), e poi mi son fermato. Nella mia mente a strisce, ho pensato che  1) se non li mangiavo tutti e tre il mio fegato mi avrebbe ringraziato 2) se non li toccavo mai più – questa è la versione fioretto – forse lo scudetto, contro il parere di quasi tutti, lo avrebbe vinto il Milan.

Quella squadra stampata sulle scatole dei tre panettoni, con dentro un’ostia assai calorica, auto-consacrata da quel tipo che sta a braccia d’angelo sulla scatola. Ok, non saranno più tre, facciamo due e mezzo, sarà più dura, ma se rimarranno così, il momento della trionfale vittoria – in qualche maniera, ma non ti dicono mai quale – arriverà.  Lo so, lo so, non dite nulla, ma a me ogni tanto prende così. Le cose, come in una Internet of Things & People, comunicano.

Da allora, che era più o meno prima del derby di ritorno, quello in cui Oliviero sotto rete avrebbe fatto his best Sheva, loro tre son rimaste lì. Intoccabili. Oh, sarà anche ‘na strunzata ma non si sa mai, nel mio miglior Troisi-ese. E più passavan le settimane, più rimanevano intoccate, fino a Pasqua e dopo… e ormai ci sono le colombe in svendita, e del panettone chissenefrega (anche se, certe notti alle due…).

Anche quando siamo tornati sotto, li guardavo e mi chiedevo quale rapporto causa-effetto poteva liberarsi dalla mia scaramanzia gastro-iconica. Così come il battito della farfalla, anche guardare Ibra sul panettone (senza mangiarsi l’ostia) poteva creare, da un’altra parte d’Italia, l’uragano di uno stadio pieno e rosso che trema? Non si sa mai, mi dicevo. Che se ci credi, magari succede. Fideismo assoluto.

Quello, e poi c’era anche un altro simulacro. La maglietta crema da trasferta regalatami dalla Fondazione Milan all’inizio del Campionato, quella con scritto Massarini 1 dietro in nero che è meglio non metterla finchè non fai un mese di dieta, magari da lunedì. Quella stava sulla pila delle riviste musicali, anche lei incredibilmente al suo posto da mesi. Stavano a due metri di distanza, pur senza conoscersi.

La maglietta non ero così fanatico da indossarla di fronte al 45 pollici, figli sbracati e io rigorosamente in piedi, come ai concerti. Esperienza a metà fra il salotto e lo stadio, il primo che vedi tutti i dettagli (che Leao ha fatto tre assist l’ho capito alle tre di mattina) e l’altro che vedi tutto il gioco.

Nei tempi duri guardavo le tre scatole e mi dicevo: ok, si può pareggiare perchè non la metton dentro mai, si può persino perdere, ma devi avere pazienza. Se ci credi, un giorno cambierà, come diceva il poeta a proposito di tutt’altro.

Poi, qualcosa (non so se uno dei panettoni) mi ha cominciato a parlare, una voce che diceva – come Mother Mary a McCartney –  di stare tranquillo, lascia che sia, lo vince lui. Lo vince il Milan, nessun dubbio. Quelle classiche cose che ti tieni per te 1) per non rovinare l’incantesimo 2) perchè farsi prendere per matto? e poi, proprio sicuro che la voce non ti prenda in giro? Girano certe voci, sai…

La maglietta stava lì, impugnata come una reliquia quando eravamo sotto di uno o due, e alla fine della tenzone riposta sulla pila, a guardarsi da lontano con la sciarpa intorno ai buchi del condizionatore. Era servita? No, non sempre. Un paio di scoppole le abbiamo prese.

Ma se restava lì andava bene, non disturbava. E aveva fatto amicizia col panama dell’Ammiraglio, che stava sull’altra pila di riviste. Si dividevano lo spazio, intoccati nel caos tutt’intorno. Del resto, se dovevano svolgere una funzione, dovevano pur avere un luogo tranquillo per lavorare. O sgabello sì e la pila delle riviste no? Eccheccavolo.

Poi, arriva una sera e scopro, a partita finita (salvo ricorsi), che un portiere che gioca di radu, figlio del destino (che non so se è una buona cosa per lui) si arrende al padre e fa una di quelle cose che neanche il vecchio bambinone portierone dollarone.

Mi giro, e dò un’occhiata. E loro ferme lì, immobili. Come facessero finta di nulla. Come non fosse successo nulla. Le guardo, vuoi mettere che…? Loro zitte (non fanno le sborone). Ma comunicano. Non ti preoccupare, te l’avevo detto che se ci siamo noi scudetto è sicuro (quasi con la stessa voce di quello vero… “Non ti devi preoccupare. Ci pensa Zlatan”).

Il girone di ritorno dura mesi, ne succederanno pure di cose, di spostamenti, di riarredi, no? Ma quelle rimanevano lì, era passato anche l’uomo della fibra e aveva spostato i cavi, ma non lo sgabello. Non i tre panettoni. Quasi quattro mesi dopo. E poi dici.

Poi, è arrivato il 22 maggio. Due figli (di cui uno anche di compleanno) che arrivano dalla terra del barbuto vichingo col ginocchio ferito in battaglia, io rientravo dal Festival dei Beatles e dai pascoli verdi, Marco in macchina con la mamma da Portovenere.

A la cinco de la tarde, come nei western, al bar sotto l’AltaVelocità Mediopadana. E poi, uniti e compatti, senza l’unica donna (con 5 maschi in famiglia unico contatto con il calcio l’amore per Totti), unico contatto con il calcio Totti, indecisa fra scetticismo e divertimento, verso il Mapei (che suona molto far-east).  Apro lo zaino, due maglie. Quella che un giorno nel lontano 2012 mi aveva dedicato Ambro23, in una mattina di sole con il nucleo di quella che sarebbe diventata la chat che ti occupa la giornata, strisce belle larghe e le tre strisce rosse sul braccio che stavano così bene. E quella nuova col numero 1, solo un anno e già in trasferta premio, che a casa nel cassetto rimangano le altre. Tre rossonere (fra cui un Inzaghi 2003 che era un bijoux), e quella bianca per il sedicenne, che beato lui gli stava larga.

Che serata non ve lo racconto neanche (se siete del Milan lo avete vissuto pure voi, se pensate che questa baby truppa + generali anziani non sia roba per voi, perchè perdere il nostro reciproco tempo?). Comunque la ola nello stadio della città del tricolore, e le nuvole oro-rosso-nere sparate nel cielo al tramonto e la faccia estatica di Paolo nello schermo e Pioli che è on fire lallallalalallalalaetc sparato a palla e cantato da tutto lo stadio son belle cose. Dopo 11 anni, poi.

Quando son tornato a casa, dopo aver guidato tutta la notte, cit. Springsteen, e ho ritrovato quelle tre presenze, sempre lì in pila, ho fatto un cenno, well done, e mi sono chiesto: ma adesso 1) posso dare un morso? E non è che saranno scadute? 2) quanto durano? Nel senso, se non le mangio neanche adesso, quanto potrebbero durare i loro ultrapoteri?

Perchè, nel caso, si potrebbe anche lasciarle lì un altro anno, e… No, dai, la Champions quest’anno è troppo presto. Ora è double star time. Se ci credi, magari succede.

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