Virginia Woolf nel suo racconto Kew Gardens attraversa i giardini londinesi una mattina di luglio e, nel suo incedere svagato, finisce per entrare nelle vite intime di una coppia di sposi, di un ragazzo a passeggio insieme a un vecchio, di due giovani al primo appuntamento e persino della lumaca che striscia lungo la grande aiuola ovale al centro dei giardini.

La stessa inclinazione a trasformare visioni innocue in luoghi narrativi affollati di un’umanità commovente si ritrova tra le pagine dei racconti contenuti in Come una storia d’amore di Nadia Terranova (Giulio Perrone, 2020).

Anche qui, la storia dei personaggi si allaccia alla geografia di una città, che è Roma, e nell’atto di legarsi, attraversa e supera lo spazio urbano per accedere a un tempo incantato in cui si sommano memorie e fantasie.

I luoghi diventano processi. Via della Devozione, il Pigneto, Il Ghetto ebraico, Termini, il centro e le periferie hanno in sé la libertà affabile di tutte le donne che un giorno si sono messe in cammino, la loro grazia nel voltarsi indietro, nel ridisegnare gli spazi della città e i suoi confini. Nell’atto del camminare – che è trasformativo, poetico e spirituale – il corpo modifica il tessuto urbano, fonda le dimensioni, l’ordine, le gerarchie sociali. Soprattutto rende ogni spazio permeabile. Le antiche certezze mormorano tra i sanpietrini. Torna l’eternità vacua delle cose che abbiamo perduto.

Sotto alla luce disperata delle vie di Roma, nello sguardo abbagliante delle protagoniste di questi racconti, i luoghi che conosciamo si trasformano e la topografia si fa sfuggente. Nell’incorporare forme e suggestioni, la città diventa organismo pulsante, esubero di identità. Al suo interno si contano infiniti nodi e percorrenze possibili, una moltitudine intrecci.

Ogni storia porta con sé un vuoto che rimbalza ogni architettura. Restano i corpi in movimento, gli sconosciuti che evocano tutte le felicità passate, anche quelle che ci hanno schivato, che non abbiamo mai preso. Gli stessi sconosciuti che sembrano familiari, la cui gioia oscura è confortevole come le case da cui non desideriamo fuggire.

In ogni incontro, anche in quelli sublimati, esiste qualcosa che ci appartiene. L’erranza è implacabile: taglia l’eccesso, fa posto a istanze universali, al tempo mitico e primordiale che dilata i ricordi e le ossessioni. Rimane salda solo la bellezza fugace della solitudine che si riflette ovunque: nelle assenze fantasmatiche, negli sguardi che attiriamo e che ci attirano, nella gioia tiepida delle infanzie sfortunate.

Altissima, letteraria, autentica, Nadia Terranova porta ancora una volta con sé l’agonia maestosa di tutte le memorie ingrate, e l’incanto rapace che si trova una sera di un giorno qualunque, al tavolo di un bar mezzo vuoto, dietro un bicchiere di vino frizzante e delle noccioline.

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