I romanzi sui disturbi alimentari ormai li leggo con fatica. Immagino dipenda dal fatto che in questi anni di attivismo di storie ne ho lette e sentite talmente tante che se ho un momento di svago con la lettura, vado a cercare altrove.

Matteo Bussola però mi piace davvero tanto, adoro il suo modo di scrivere così, quando è uscito La neve in fondo al mare, l’ho comprato senza pensarci due volte. Anzi, l’ho proprio comprato due volte: la versione cartacea per avere la sua cartolina illustrata in edizione limitata e quella su Kindle per poterlo leggere anche la notte mentre tutti dormono.

Non solo disturbi alimentari ma genitorialità

La verità è che già sapevo che non era un libro sui disturbi alimentari quello che stavo per leggere, non solo almeno. Era piuttosto una storia di genitorialità, di quelle che solo lui sa raccontare con quella delicatezza e profondità che è difficile trovare altrove. Perché le storie difficili devi saperle scrivere, disegnandole con verità ma senza fare danni in chi legge e quando si parla di DCA, questo non è per niente scontato.

Il dono di Bussola è quello di saper raccontare l’amore quando si mescola alla paura della perdita e di farlo senza usare la carta facile del dolore splatter. Un padre e un figlio, una storia tutta maschile e per questo profondamente diversa da quasi tutte le storie sui disturbi alimentari che ho letto fino ad ora. Una storia fatta di silenzi, paure, imbarazzi, tentativi disperati di capire e poi di bastare.

Le diagnosi oggi non sono semplici

E poi c’è, finalmente, la doppia diagnosi. Quella roba che se la dici così nessuno sa che cos’è, perché l’anoressia è l’anoressia, la bulimia la bulimia e siamo abituati a pensarle brutte e cattive già così, da sole, senza bisogno di accostarci nulla. E invece le diagnosi degli adolescenti di oggi non sono più così semplici, non arrivano quasi mai da sole, sono accompagnate ad altro, che sia depressione, disturbo post traumatico o disturbo di personalità. E i genitori non sono preparati allo tsunami in cui si ritrovano sballottati all’improvviso, non capiscono con cosa hanno a che fare e cosa dovrebbero fare per aiutare i figli a stare meglio.

In questo romanzo i genitori finiscono ricoverati insieme ai figli, come accade per le malattie fisiche, quelle verso le quali il mondo fuori sviluppa empatia e compassione. Ma questi padri e queste madri l’empatia e la compassione la devono trovare tra di loro, perché chi non vive il dramma di un figlio o una figlia con una malattia psichiatrica non è in grado davvero di comprendere fino in fondo cosa significhi.

E anche loro che lo vivono non sono comunque liberi dallo stigma, dalla vergogna, dal pregiudizio che in fondo, se solo lo volessero, i loro figli potrebbero stare meglio. E’ così difficile districare l’adolescenza dal disturbo alimentare, dalla depressione, dal disturbo di personalità. In un’età in cui chiudersi in camera o digiunare perché un ragazzo non ti guarda è normale, in cui si sperimenta il pericolo in tutte le sue forme, in cui non si valutano ancora le conseguenze delle proprie azioni, la malattia mentale si insinua e si mimetizza facilmente, perché alla fine cosa sono i suoi sintomi se non un’iperbole di qualcosa che è considerato fisiologico?

La capacità rara di Bussola è quella di stare sulla linea di confine senza dare troppi nomi alle cose, descrivendo la normalità della patologia, il suo essere così evidente solo perché contestualizzata dai muri di un ospedale. Ci mostra come sia tutto così vicino, così possibile, così probabile e così difficile da gestire ma anche come nulla sia perduto, se ci si mette davvero in ascolto. Se si sceglie di avere dubbi, di chiedere, di provare a uscire dalla propria zona di confort nudi di ogni preconcetto, pronti a fare un pezzo di strada con loro, i nostri figli.

Condividi: