Entrare fuori. Uscire dentro. Lo slogan che compare sulla home page del Museo della mente.

Il Museo Laboratorio della Mente della ASL Roma 1 è un museo di narrazione che ha l’obiettivo di documentare la storia dell’istituzione manicomiale e di elaborare una costante riflessione sul paradigma salute/malattia, sull’alterità, sull’inclusione sociale, sulla politica delle cure e delle culture, sul coinvolgimento della comunità.

Aperto nel  2000, inserito nell’Organizzazione Museale Regionale del Lazio, nel 2008 ha costruito un nuovo percorso espositivo in  collaborazione con Studio Azzurro.
Il  percorso di visita si sviluppa nel  VI padiglione dell’ex manicomio di Roma di Santa Maria della Pietà in un allestimento immersivo e multimediale che coinvolge il visitatore, in una continua oscillazione tra elementi reali e virtuali, stimolando la partecipazione attiva del pubblico che viene accompagnato in un viaggio fatto di storie, sensazioni, racconti per conoscere dall’interno la vita del manicomio attraverso l’esperienza di chi lo ha vissuto ed esplorare la realtà della malattia mentale tramite un’immersione in un gioco di illusioni e allucinazioni visive e uditive. In tempi di quarantena il Museo si è inoltre provvisto anche di un canale youtube dove è possibile prendere visione di interventi tematici di scienziati, storici, antropologi, filosofi, medici, psicologi, artisti.

Per accedere al Museo si passa nel Parco di Santa Maria della Pietà, il Parco che ha ospitato fino al 1999 il manicomio provinciale di Santa Maria della Pietà, inaugurato nella sede di Monte Mario nel 1914. Progettato dall’Arch. Francesco Azzurri come manicomio villaggio, occupava una superficie di 150 ettari con 43 edifici di cui 29 padiglioni dedicati alla degenza. La Legge N. 180 del 1978 sancì la fine del manicomio, obbligando ogni Regione a sostituirlo con una rete di nuovi servizi territoriali, i Dipartimenti di Salute Mentale. L’ospedale psichiatrico fu chiuso nel Dicembre del 1999 restituendo il Parco alla città.

Il Museo è legato alla Biblioteca Cencelli con un patrimonio di 9600 volumi e di un Archivio Storico sul quale è intervenuta la Soprintendenza archivistica per il Lazio con un importante lavoro di riordinamento ed inventariazione della documentazione dalle origini dell’ospedale (XVI sec.) agli inizi del Novecento.

Dall’Archivio storico si apprende che nel 1929 fu istituito presso l’Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma un reparto aperto per l’assistenza e la rieducazione dei fanciulli deficienti.  Si, deficienti. Deficienti, idioti e frenastenici. Queste sono le etichette con le quali ci si riferiva ai bambini con disturbi mentali. Da qui l’origine di questi termini oggi ancora in uso nel linguaggio comune con un’accezione nella maggior parte dei casi derisoria e offensiva.

I bambini non potevano essere folli come gli adulti. I canoni seguiti all’epoca, in base ad un’astratta concezione dell’infanzia, escludevano la follia, vista come negazione della ragione, da questa età evolutiva in cui si riteneva che la ragione non fosse ancora insediata. Questo escludeva inevitabilmente i bambini dalle cure e dall’assistenza necessaria.

L’idiota, secondo lo psichiatra francese Bénédict Augustin Morel,  rappresentava il prodotto finale del processo degenerativo: “È un essere vegetativo che non ha ricordi, né intelligenza, né iniziativa, in cui la parola è assente” (Morel, 1857). Uno stato non modificabile in cui le facoltà intellettuali non potevano esprimersi.

Il frenastenico, per lo psichiatra italiano Andrea Verga era colui che “non delira come il pazzo, soltanto non sa ragionare […]. Non è propriamente dunque un malato, un delirante ma […] una mostruosità psicologica” (Verga, 1877).

Il ritardo della clinica psichiatria nell’età evolutiva è stato dunque conseguenza della concezione stessa di follia che, concepita come errore della ragione, portava a negarne quasi ontologicamente la sua esistenza nella infanzia vista, nella sua rappresentazione comune, come un’età pre-razionale; ma ciò induceva a un successivo scarto ideologico che da un canto indirizzava la medicina a vedere l’idiozia intrinsecamente caratterizzata come incurabile, e dall’altro a escludere dalla psichiatria ogni risvolto che non fosse prettamente legato alla degenerazione della costituzione fisica.

In Italia è stato grazie ad alcune personalità come Maria Montessori e Sante de Sanctis, succeduto poi da Carlo de Sanctis e dal noto neuropsichiatra Giovanni Bollea che il fanciullo è stato gradualmente riconosciuto, come soggetto clinico con una sua singolarità nei processi evolutivi e mentali, come soggetto dunque avente diritto all’assistenza e alla cura.

E oggi? Oggi invece davanti ad una vera e propria inflazione diagnostica nell’età evolutiva, i bambini sembrano essere diventati tutti folli.  

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