La notizia della morte in diretta dello streamer francese Jeanpormanove – 46 anni, 582mila follower su TikTok, oltre dieci giorni di diretta ininterrotta su Kick fino all’epilogo estremo – non è solo una tragedia individuale. È un episodio che rivela molto della nostra società e della nostra relazione con il dolore, con la sofferenza e con l’attenzione che siamo disposti a concedere.

Da un lato, nelle case di tanti, ci sono persone malate, terminali, che consumano le loro giornate tra dolori e silenzi. Un dolore autentico, “non spettacolare”, che spesso spaventa persino i familiari e gli amici più vicini. La stanza del malato è un luogo difficile da abitare: i corpi disfatti, i suoni della sofferenza, il volto della fragilità assoluta. Non è raro che le visite si facciano rade, o addirittura che manchino del tutto. Ci diciamo che è perché “non sappiamo cosa dire”, ma in realtà non reggiamo il contatto con l’orrore quotidiano della malattia, con quel tableau vivant che ci sbatte in faccia la caducità, senza filtri né montaggio.

Il dolore dentro allo schermo

Eppure, davanti allo schermo, migliaia di persone hanno potuto guardare per oltre dieci giorni lo stesso spettacolo in versione spettacolarizzata: un uomo che accetta torture, sevizie, prove estreme, fino a perdere la vita. Lì la sofferenza è diventata performance, contenuto, monetizzazione. Lì il dolore non respinge, ma attrae. Non si evita, anzi: lo si segue con perseveranza. Lo si applaude con la permanenza dello sguardo.

Qui si apre un paradosso inquietante. Il dolore della vita vera ci fa paura. Il dolore spettacolarizzato, invece, ci affascina. Non tolleriamo il letto di ospedale, ma resistiamo a ore e ore di livestreaming estremo. Non reggiamo un documentario di due minuti, ma possiamo restare incollati a dodici giorni di “diretta mortale”. L’attenzione, quindi, non è morta: si accende potentissima quando l’orrore diventa intrattenimento.

“Occhi sul dolore, schermi sulla morte” di Barbara Lalle con la sua collaboratrice artistica artificiale

Perché? Forse perché nella sofferenza reale ci riconosciamo troppo. Perché il malato ci rimanda a ciò che potremmo essere. Mentre lo streamer che sceglie la propria tortura, che la trasforma in show e in business (con Kick che remunera il 95% degli incassi al creatore), ci offre l’alibi dell’estetica, dell’“atto volontario”, della “sfida estrema”. È la perversione umana che trasforma il dolore in spettacolo e lo rende persino attraente.

Viviamo in un’epoca distratta

La vicenda di Jeanpormanove mette in luce anche un’altra contraddizione: viviamo in un’epoca che ci raccontiamo distratta, incapace di seguire un discorso lungo più di un minuto. Ma questa presunta incapacità svanisce quando la narrazione è orrorifica, quando la posta in gioco è il corpo martoriato, quando l’adrenalina del pubblico incontra la fragilità estrema di chi si offre come vittima. Allora l’attenzione diventa infinita. Non siamo incapaci di guardare: scegliamo cosa guardare.

E questo fa male. Perché rivela che non è il tempo a mancare, ma il coraggio. Non è l’attenzione a essere finita, ma la pietà. Non è la distrazione il nostro male, ma la complicità con una cultura che confonde dolore con spettacolo, morte con intrattenimento.

Alla fine, Jeanpormanove è morto perché cercava più libertà creativa in una piattaforma che offriva meno regole. Ma la sua libertà era in realtà una catena, e il suo corpo il capitale da consumare davanti a migliaia di spettatori. Noi, che forse non riusciamo a stare cinque minuti accanto a un malato vero, abbiamo imparato invece a restare a lungo davanti al dolore trasformato in contenuto.

In fondo la nostra epoca ha trovato il suo slogan perfetto: non più “carpe diem”, ma “ma quando mi ricapita di morire in diretta”. Tragico, sì. Ma anche terribilmente coerente con un presente che scambia la fine della vita con la punta massima dello share.

“Lo spettacolo della fine” di Barbara Lalle con la sua collaboratrice artistica artificiale 

Per approfondire

Chi vuole allargare lo sguardo oltre la cronaca può partire da due testi diventati ormai classici: La società della stanchezza di Byung-Chul Han, che analizza il consumo e la spettacolarizzazione del corpo nell’era digitale, e Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag, che indaga la nostra capacità — o incapacità — di guardare immagini di sofferenza e guerra.

Da vedere

Sul versante audiovisivo, merita attenzione The Social Dilemma (Netflix), documentario che racconta le distorsioni del consumo social, e Inside di Bo Burnham (sempre su Netflix), esperimento claustrofobico e artistico che riflette con ironia sulla vita trasformata in spettacolo.

Se questa vicenda ha davvero un lascito, forse è quello di spingerci a riportare l’attenzione fuori dagli schermi. Non servono grandi imprese: basta spegnere lo streaming per un giorno e bussare alla porta di chi non vediamo da tempo — un familiare malato, un anziano che aspetta una visita, un amico dimenticato. E per chi vuole fare un passo in più, ci sono associazioni che ogni giorno affiancano malati terminali e strutture di cure palliative: luoghi dove il tempo condiviso conta infinitamente più di qualsiasi visualizzazione.

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