Carla Barchini (si pronuncia Carlà Barscinì) è un’artista libanese, discendente da una famiglia colta di Beirut, con reti di parentele in tutto il mondo. Vive e lavora tra Beirut, Ginevra e Firenze, città, quest’ultima, dove si è anche formata artisticamente, con maestri artigiani presso la Scuola di Palazzo Spinelli. La laurea in psicologia a Ginevra non è un dettaglio, perché la sua grammatica espressiva è fortemente intrisa di simboli cari all’arte dell’interpretazione psicoanalitica, a cominciare dalla serie di chiavi piantate nei muri, a raccontare la (im)possibilità di trovare pertugi per sbloccare rimossi.

Un’opera di Barchini

Dal 2010 Barchini espone in tutto il mondo in personali e collettive, con una visione originalissima che contiene elementi pop mischiati a linguaggi più complessi e misti. Le sue composizioni affrontano i temi della trascendenza, della liberazione e della ricerca di sé attraverso viaggi interiori che si traducono in abrasioni di vari supporti, che vengono raschiati, strofinati, coperti e trasformati. Il supporto che utilizza è per lo più legno ma anche cuoio e ferro sono materie predilette, oltre ai frequenti elementi di scarto e recupero, trovati in strada, nei cimiteri delle auto, nei cantieri abbandonati, a cui Carla Barchini assegna una nuova storia, una nuova vita, creando potenti contronarrazioni.

Barchini scava nel cuore della materia rivelandone le potenzialità inesplorate e l’allusione al percorso interiore è micidiale, nemmeno si fosse sul lettino dello psicoanalista.

Durante la residenza a Rio de Janeiro, l’artista ha perfezionato la sua ricerca arrivando a definirsi ineluttabilmente e rendendo riconoscibilissime le sue opere, sempre caratterizzate, attraverso espliciti o impliciti, da quell’uccello di fuoco che, Araba Felice, rinasce dalle proprie ceneri. Ridare vita a ciò che è morto, violato, distrutto, perduto è un’impronta imprescindibile del lavoro di Carla Barchini, quasi a segnare un destino.

Un’opera di Barchini

Infatti, un anno fa esatto, nell’agosto 2020, Carla Barchini ha visto sotto i suoi occhi sgretolarsi nelle fiamme il porto di Beirut durante la tragica esplosione che ha causato centinaia di morti e un terremoto di magnitudo 3.5 che si è sentito fino a Cipro, circa 200 chilometri di distanza:

E’ stato scioccante – ci ha detto Barchini – sia perché in un attimo ho perso tutte le mie opere, sia perché per una città che ha vissuto quindici anni di guerra civile, attentati, suicidi, bombardamenti, omicidi politici, è un trauma insanabile“.

Carla Barchini ha fatto una valigia, una sola, ed è arrivata a Firenze: l’abbiamo incontrata, e le abbiamo chiesto di esporre al ReWriters fest. di ottobre: ha accettato.

Un’opera di Barchini

Da un anno, questa donna, forgiata da una storia personale, socio-culturale e politica che è diventata sapientemente soggetto d’arte capace di raccontare a tutto il mondo che cos’è la forza di trasformare il veleno in medicina, il danno in opportunità, lavora instancabilmente per ritrovare la sua voce, quella che, nel 2019, le è valso il successo straordinario della personale alla galleria Art on 56th di Beirut, con un’eco sulla stampa di tutto il mondo e molte gallerie internazionali che hanno acquistato le sue opere, a cominciare dalla Saatchi Gallery (qui).

Un’opera di Barchini

Quella mostra, prima di perdere tutto il suo lavoro (facendo quindi salire le quotazioni delle opere acquistate da collezionisti e gallerie) era un omaggio al suo paese: la mostra raccontava l’identità effimera della capitale libanese, che, come la fenice, è risorta sette volte dalle sue ceneri. Il continuo disfacimento e rinascita di Beirut, spiega l’artista, ha creato strati di storia, cultura e patrimonio, risorse preziose per ispirare il mio lavoro. Per questo, il titolo della mostra conteneva il numero 8, posizionato lateralmente per indicare il simbolo dell’infinito: la città di Beirut allude così a un continuum, un luogo dove l’unica costante è il cambiamento.

È una terra di diversità, contraddizione e caos – dice Barchini – la sua identità è effimera e può essere compresa solo esaminando i suoi numerosi livelli“.

L’artista aveva fatto rivivere le cicatrici di Beirut celebrando sia il suo dolore che la sua resilienza, quell’eterna volontà di sopravvivere.

Opera di Barchini

Proprio la stessa che adesso anima lei, l’artista, discepola della sua stessa visione:

La resistenza dei supporti che uso, qualunque essi siano, preziosi o meno, nuovi o di recupero, mi dà la capacità di inzuppare, bruciare, aggiungere, togliere, affondare. I miei strumenti mi permettono di conoscere e creare un’intimità con questi oggetti. È un lavoro fisico, sensuale, in cui cerco di trovare qualcosa nel cuore della materia mentre incontro le mie possibilità,. La materia è per me uno specchio di energia. Tutto ciò che mi circonda, ciò che vive mi ispira e mi raggiunge, soprattutto durante le mie lunghe passeggiate solitarie. Ricostruisco una visione personale e interiore del mondo, dell’ordine dei sentimenti, staccata dalla realtà. Col mio lavoro, trascrivo questo tutto utilizzando materiali che si combinano o si oppongono per creare un’alchimia, una dualità, una diversità di combinazione che a un certo punto materializza il mio pensiero. Utilizzo consapevolmente sia tecniche tradizionali che innovative, ma il mio subconscio è l’indiscusso project manager. La concretezza, la ripetitività di certi gesti libera la mia immaginazione. Offre tante felici coincidenze oltre alla grazia di influenzare l’oggetto finito. E’ quello che sto facendo anche per Pandora, l’opera che esporrò nella collettiva di ottobre al ReWriters fest.“.

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