Leonardo Manzan è un giovane e talentuoso regista d’ultima generazione: provocatore, innovatore, ironico.

Non ci siamo mai incontrati dal vivo, neanche per questa intervista, ma le nostre chat WhatsApp sono esilaranti: in uno degli ultimi messaggi per comunicargli che ero a Parigi gli inviai la foto dal Louvre con la Gioconda e lui mi rispose inviandomi una foto di una riproduzione seriale della Gioconda del reparto arredamento interni dell’Ikea di Roma.

Dalle foto che si trovano su internet Leonardo sembra (e probabilmente lo è) un bravo ragazzo dall’aria dolce ed educata, il classico bravo ragazzo…ma dai suoi lavori svela che quell’aria docile del suo aspetto nasconde, sicuramente, un’anima inquieta e vulcanica, tutt’altro che rassicurante.

Manzan ha vinto due volte la Biennale di Venezia come regista e creatore di originali messe in scena della realtà; nel 2018 con Cirano deve morire e nel 2020 con Glory Wall.

Leonardo Manzan e il suo pensiero

Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Leonardo Manzan è un attore, un regista, un autore, un malato di sesso, maestro di swing, un bravo ragazzo, un solipsista, un talento multi potenziale, socio del Mensa, un bugiardo patologico e un grande artista.

Che significa essere un regista?
Il regista è uno che quando trova il fine che si adatta ai mezzi di cui dispone lo chiama spettacolo necessario.

Provocazioni a parte, l’indefinibilità della parola regista è una delle cose a cui tengo di più. Non ho studiato per fare il regista. Non ho niente in contrario a che si facciano corsi, esami e tesi di laurea per essere un regista, ma un regista di professione mi sembra un controsenso. Più si definisce l’ambito di responsabilità professionale di un artista, più si impoverisce la sua funzione. Oggi è come se la mancanza di riconoscimento di cui il teatro soffre cercasse compensazione nel presentarsi in veste di tecnici, specialisti, competenti del mestiere. Guarda il proliferare di botteghe teatrali, carrozzerie artistiche, officine e falegnamerie drammaturgiche. Cose ridicole.

A me piace semplicemente pensare di fare incontrare delle persone e farle stare bene insieme per un breve periodo di tempo.

Cosa ti spaventa, di più, del mondo del teatro?
L’idea di far parte di un club esclusivo senza accorgersi che è esclusivo solo perché nessuno vuole farne parte. Mi spaventa il fatto che il teatro possa essere un rifugio per gli artisti mediocri che non avranno mai la prova della realtà. Nei giorni buoni con la parola realtà intendo la sana competizione, nei giorni cattivi intendo le leggi spietate del mercato.

Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)?
Le donne. Alcune.
Le tette. Alcune.
Il sonetto 66 di Shakespeare.

Se dirigessi un teatro, che cosa faresti di diverso che ancora non è stato fatto dai tuoi predecessori?
Metterei in cartellone i miei spettacoli, nulla di diverso insomma…

Fare teatro, cosa significa?

Fare teatro è fare politica, oggi?
Fare teatro, fare politica, fare cultura sono espressioni che non mi dicono nulla, formule per attribuirsi virtù senza doverle dimostrare. Per questo si usano impropriamente le maiuscole: per fregiarsi di una rispettabilità che non si è sicuri di meritare. Preferisco dire che faccio degli spettacoli. Alcuni spettacoli possono in effetti essere degli spettacoli politici, impegnati eccetera, ma se lo sono non acquistano per questo nessun valore in automatico. Certo, dire che fare teatro è un gesto politico può essere molto utile, perché allora ogni fallimento diventa una sconfitta politica. Ovvero una cosa molto nobile. Visto il seguito di cui godiamo, mi sembra però più corretto dire che non facciamo politica ma riunioni di condominio. Anzi, riunioni di condominio!

Che tipo di spettatore sei, quando vai a teatro?
Mi siedo più volentieri in ultima fila, non rido mai, spero di non essere tirato in mezzo. Sono lo spettatore che non vorrei mai ai miei spettacoli.

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel teatro del passato?
Il coro greco.

Sei diventato ciò che sognavi di diventare da bambino?
Sono quanto di più lontano sognavo di essere. Mia madre mi racconta che da bambino dicevo di voler fare il pensionato. La pensione è un miraggio. Ma forse meglio così. Io il pensionato volevo farlo da bambino.

Cosa abbiamo (purtroppo) perso del teatro del passato?
Non c’ero e tendo a non fidarmi dei racconti nostalgici di chi c’era. Comunque direi: le lunghe tournée. Io difatti mi impegno moltissimo per far girare i miei spettacoli.

Qual è la maggior preoccupazione quando inizi un nuovo lavoro?
Cosa facciamo stasera? Quello che facciamo tutte le sere, tentare di conquistare il mondo!

Cosa pensi del pubblico?
Prevale la gratitudine. Durante ogni singola replica dei miei spettacoli sto attentissimo a ogni minima sua reazione. Quindi forse non è importante quello che penso del pubblico, quanto quello che lui pensa di me. 

Qual è il tuo desiderio più grande, che non hai mai confessato?
Se non l’ho mai confessato ci sarà un motivo. 

Hai diretto attori e attrici più grandi di te e anche attori e attrici della tua stessa età. Come ti poni agli attori e alle attrici di così diverse generazioni? 
Preferisco lavorare coi giovani. Con gli anziani ci lavorerò da anziano. In tournée è più divertente. E nelle foto veniamo meglio.

Leonardo Manzan, chi è il tuo punto di riferimento, oggi?
Enea Berti. Un genio assoluto. 

Cosa si potrebbe fare, secondo te, per portare i giovani a teatro? 
Spettacoli migliori.

In cosa credi?
Credo all’opinione dell’ultimo che ha parlato. Quindi alla mia.  

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