Do You Nomi? Bowie sì, prima di tutti. Tanto da volerlo nella sua esibizione del 15 dicembre del ’79 – tra le più sfacciatamente teatrali – in onda per il Saturday Night Live dell’NBC. Tanto da farsi ancora altro da sé, prendere le sue sembianze e assegnargli un ruolo apparentemente secondario – un coro lirico, insieme al ballerino Joey Arias – che, dopo poco, varrà all’artista tedesco quello di protagonista. Con un disco e un palco tutti per sé.

Tuxedo a clessidra, sproporzionato, caricaturale, un enorme papillon a righe bianche e nere e una lunga gonna a tubo. Bowie si fa scultura: trasportato da due tutine in gonnella – Klaus e Joey, innovativi spiriti shakespeariani – una nera e una rossa. E poi donna, mentre indossa un tailleur blu e poi marionetta, once again. The Man Who Sold The Word (cinquant’anni appena compiuti, il 4 novembre), con TVC15 e Boys Keep Swinging, diventa così uno show che cambia forma, ritmo e abito, come al tocco di una bacchetta magica. Underground, contraddittoriamente pop e inevitabilmente rock: per Klaus Sperber è l’inizio della carriera.

In arte Nomi, anagramma di quell’omni(s) latino che sul palco si traduce davvero in qualunque cosa, è cantante, attore, danzatore. Precursore del punk-rock e dell’Avant-Guarde, si insinua nella scena culturale dell’Est Village newyorkese e nell’occhio bowieiano. Disturba e disorienta, è un performer stravagante, esagerato, appariscente, controllato. Vittima della fascinazione per il Giappone e per il Kabuki, come Kemp e Ziggy, va in scena con il viso dipinto di bianco, gli occhi e la bocca truccati di nero. Lento ma dinamico, dall’estetica insolita e attenta, la vocalità estesa, la fisicità futurista e futuristica, coniuga opera e new wave, incamerando atmosfere espressioniste e sprigionando rappresentazioni surreali.

Interpreta Death e Cold Song, rileggendo Henry Purcell; malinconico eppure ironico, canta Nomi Song, gioca con le parole e le ambivalenze: la drammaturgia del suo teatro resta egli stesso, con i movimenti netti e squadrati, le sembianze draculiane, la danza cadenzata e appuntita, in finto contrasto col suo canto sospeso, profondo e a volte malinconico.

David Bowie – che di opposizione e paradosso ne ha fatto un manifesto – lo sceglie come unico sfondo di quei tre brani che raccontano il trasformismo circolare, cambiando sempre senza cambiare mai. Insieme, in un gioco di personalità e trasposizione dell’io, diventano, anche solo per una sera, la strana coppia del teatro rock. Nove minuti da godere a tutto volume, a tutto schermo, con orecchie e occhi spalancati verso l’insolito.

E ora? Do you Nomi? 

Will they know me
Know me know me now

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