Lo dico subito, forse si era già intuito dai primi due libri che ho recensito, ma io sono un gran paraculo. Quando leggo ho bisogno di respirare, di prendermi delle pause, per questo non sono mai andato troppo lontano provando a leggere libri come Il Processo di Kafka. Paragrafi su paragrafi fitti, asfissianti, mi mettono ansia e finisco per chiudere il libro per poi non riaprirlo più sotto false promesse di completamenti che non arriveranno mai.
La lettura di Pantera è partita con queste premesse: per prima cosa è Stefano Benni, già nella recensione de La Foresta di Lansdale ho parlato di quanto mi piacciano le sue storie; secondo, è un libro piccolo, con due racconti, con alcune belle illustrazioni di Luca Ralli a rifinire i capitoli e a dare grande spazio di respiro. Quindi sì, è un po’ stata una paraculata da parte mia. Apro il libro aspettandomi una storia divertente, folle, capace di farmi ridere ma anche di farmi sognare. Il mio libro preferito di Benni è La Compagnia dei Celestini, un po’ per nostalgia del cartone che guardavo da piccolo, un po’ perché si parla di calcio raccontato, una delle mie passioni. Potrei scrivere per pagine di quel libro, ma questa recensione non è dedicata a quegli orfanelli pallonari, ma a una misteriosa e fumosa campionessa di biliardo: la Pantera.
Questa storia, per quanto corta, pullula di personaggi memorabili, luci, odori, suoni follemente orchestrati da Benni in un concerto di stecche che baciano biglie, buche che ingurgitano punti e reazioni dei giocatori. Ci sono personaggi che appaiono vivi, indelebili e protagonisti di una loro storia mai narrata ma che durano due righe. Se questo racconto fosse un dipinto sarebbe un dipinto di Kandinsky, una tela piena di forme nette e colorate che ognuna sembra voler dire qualcosa di estremamente significativo. Questa storia mi ha fatto sentire parte portante del racconto, perché siamo noi lettori il narratore, un ragazzo senza nome e senza descrizione che finisce a lavorare al Tre Principi, una fantomatica sala biliardo di una città inventata. L’unico attributo che gli viene assegnato è che fa schifo con la stecca. Lui si innamora della Pantera, io come lui e così anche voi, fidatevi. Della storia non vi dico altro perché, a differenza de La Foresta di Lansdale, potrei spoilerare qualcosa e danneggiare così la potenza con la quale quest’esperienza potrebbe sconvolgervi.
Sarò sincero, ho detto all’inizio che i racconti di questo libro sono due, ma il secondo non sono riuscito a leggerlo, non per pigrizia (lo ammetterei se fosse così, il secondo è anche più corto del primo) ma perché mi sono sentito talmente scosso da Pantera che non riuscivo a posare gli occhi sulle nuove parole senza pensare a lei.
Ogni volta che leggo Benni è come se sognassi, non in senso che quel che scrive è paradisiaco, ma che, scusate se non mi vengono termini più concreti, è come se fluttuassi, quasi in una fattanza letteraria (e subito il mio pensiero corre ai pinguini fattoni di Terra!, altro suo libro che ho adorato) a immaginarmi i personaggi interagire tra di loro con le loro caratteristiche che li definiscono e distinguono chiaramente, tra di loro questi sono come acqua e olio, non c’è un personaggio confondibile con un altro nonostante il poco spazio narrativo. Per questo ho pensato a Kandinsky, altra mia paraculata che mi fa sembrare colto, in realtà in quarantena mi sono ordinato un puzzle di un suo dipinto e subito mi è venuta in mente la chiara immagine di Benni che si diverte a unire i pezzetti colorati per farne un bel rettangolo. Proprio un bel rettangolo. Ma un rettangolo molto affilato capace di tagliare come un coltello giapponese se maneggiato al modo giusto, e Benni è uno chef abilissimo con le lame.
Pantera, Stefano Benni, 2014