Su Rewriters del 13 ottobre, Nicola Barin ha anticipato il compleanno del prossimo gennaio di Jim Jarmush, tracciando il ritratto di un regista che fa un cinema di particolari a prima vista irrilevanti eppure pronti a rivelarsi epici, di silenzio sviscerato, di crisi della persona nella modernità liquida. Barin segnala in particolare due titoli, disponibili su Amazon, uno dei quali a mio avviso costituisce la quintessenza non solo del cinema di Jarmush, ma anche della sua concezione del viaggio, sia nell’accezione canonica – esperienza rivelatrice di ciò che si è e si cerca – sia come estetica delle grandi svolte e nei dettagli più piccoli della vita. 

Tanto se dovremo tornare in un più o meno severo confinamento, consiglio, quale antidoto all’immobilità, l’immersione nel nomadismo non eroico di Jarmush. Un contrappeso realista, perché il viaggiare di Jarmush è spesso fatto di due passi: gli evasi di “Down by law” che si perdono nei labirinti delle paludi, l’altro labirinto nel quale si smarrisce il cow-boy di “Dead Man”, un letto e una portineria di un alberghetto e lo scompartimento di un vagone in “Mistery Train”, i tragitti minori dei tassisti di “Notte su terra”, il vagabondare degli sbandati di “Stranger than Paradise” e della sua opera prima “Permanent vacation”, e perfino i vampiri di “Only lovers left alive” che si muovono tra gli Usa e Tangeri.  Una nuova frontiera del road-movie che a mio modo di vedere raggiunge il suo apice in “Paterson”: il nome di un autista di autobus che vive nell’omonima cittadina che ispirò il poeta William Williams.

Paterson di per sé è l’antitesi del viaggiatore, è uno stanziale con abitudine fisse. Eppure troppi elementi del suo fluire quotidiano sfidano questa immobilità: i tragitti urbani col suo autobus, l’iconico ponte sul fiume, le ricorrenti reminiscenze dell’Italia, perfino la passeggiata serale. Un dolce fluire di riti quotidiani, svolti diligentemente mettendosi sempre, proprio come nella predisposizione dei viaggiatori, all’ascolto degli altri, e così Paterson è  pronto a intercettare le aspirazioni della sua creativa compagna, l’umore del loro cane che porta a spasso, le lamentele spicciole di un collega di lavoro di origine indiana, le storie degli amici che incontra ogni sera al caffè, e soprattutto i frammenti di conversazione che coglie nell’autobus cittadino mentre guida. 

La sua non è un’attenzione disinteressata: perché Paterson, l’autista di autobus, è un poeta, e anche una scatola di fiammiferi diventa oggetto per i suoi versi, scritti a mano nel prezioso taccuino che porta dietro. Il verso, l’esercizio quotidiano dello scrivere in versi, con quella meticolosa attenzione alla parola giusta e al ritmo che dischiude il sapore della frase, è l’estensione dell’esistenza, della percezione, l’antenna per entrare in una concordanza che concilia l’intimo e il fuori. Un trantran quotidiano nel quale, scrive Barin, “lo spettatore è in attesa di essere sorpreso e il cineasta americano prima elude e poi colpisce”. 

E il colpo arriva duro, con una microtragedia personale che sconvolge il mondo chiuso di Paterson e il suo bisogno di aprirsi e andare oltre. La sola soluzione è una redenzione fuori dalle pareti e dalle persone domestiche, incontrando seppure restando fermi. Un deus ex-machina appare sotto misteriose spoglie, seduto su una panchina, dunque una creatura mobile e immobile; è un viaggiatore e viene da molto lontano, e con le parole e le scansioni temporali giuste di chi ha fatto tanta strada per assaporare quella vista da quella panchina, ha la formula magica per invitare Paterson a riprendere il suo cammino tra autobus e taccuino – la poesia offerta dal forestiero. Lui, per ripartire seduto sulla panchina, non aspettava altro – come noi. 

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