Felicità raggiunta, si cammina

per te sul fil di lama.

Agli occhi sei barlume che vacilla,

al piede, teso ghiaccio che s’incrina;

e dunque non ti tocchi più chi t’ama.

                                     Eugenio Montale

Se si ripercorre a ritroso nel tempo la storia della parola, fino ai suoi albori medievali, si scoprono tante di quelle vie alla felicità da provare alla fine l’impressione che a nessun buon dizionario dell’uso corrente, nemmeno il migliore, riuscirebbe di tentarne una sintesi in grado di coglierne tutte le sfumature concettuali possibili, anche solo nella percezione contemporanea. 

Gioia o contentezza; ilarità o allegria; appagamento o godimento, in corpo (vizio) o in spirito (virtù); serenità o elevazione morale, mista a propositiva sicurezza di sé e alla corazzata fiducia nel prossimo e nelle future sorti del mondo; una tensione lungimirante e costante verso la gloria celeste, la salvezza oltremondana, la beatificazione imperitura; una conquistata impermeabilità ad angosce o disagi, frustrazioni o sofferenze; uno stato costante di consolazione o di conforto, di comodità o di agiatezza, di magnanimità o di sapienza; una forma di distinzione sociale o ricchezza, di privilegio o eccellenza; il senso profondo di un benessere certo e inattaccabile; magnificenza o bellezza, conforto o soddisfazione, prosperità o successo, consolazione o tenerezza, frugalità o morigeratezza, onorabilità o buona reputazione, abilità o perizia, maestria o eleganza (la felicità di uno stile), efficacia o efficienza (la felicità di una scelta, o della soluzione a un problema), salubrità o fertilità. Di tutto questo, e di molto altro ancora, può dirsi – è stato detto, oppure scritto – consistere la felicità. L’ultimo significato intercetta, ed era già così nella lingua latina (felicitas, fecunditas), la parentela etimologica tra felicità e fecondità. La felicità come gestazione, gravidanza, concepimento di un feto, anticamera alle doglie del parto. Non c’è felicità senza sudore o patimento, seminagione o inseminazione. La felicità dura qui sforzo e fatica, esige cura e attenzione, richiede sacrificio e abnegazione. Non c’è felicità senza uno scotto da pagare (Kant, Leopardi, Proust…). 

Irraggiungibile per molti filosofi (illusoria o accessoria per i presocratici), la felicità è un tutto e un niente. È il nulla che tenta l’approdo impossibile al tutto, ed è il tutto che svanisce improvviso nel nulla. È l’inesausta proiezione dei nostri desideri: ingenua o consapevole, celata o manifesta, condivisa o inconfessabile. È l’inganno della voluttà dei sensi avvitata ossessivamente su di sé, l’edonismo spicciolo e piccino votato alla sfacciata ricerca di piaceri fugaci e immediati. È il limite (in senso matematico) cui tendiamo ogni volta, e più ci avviciniamo più si allontana (o ristabilisce le distanze).
Per me, che sono poco avvezzo alla spensieratezza, forse la felicità è proprio quest’aerea (e aurea) condizione dell’essere: la sensazione, tranquillizzante e liberatoria a un tempo, di potersi abbandonare all’assenza di qualunque peso, impegno a preoccupazione. Se dovessi pensare a un’incarnazione icastica della felicità, che possa fare perfettamente al mio caso, punterei sui quattordici personaggi ritratti nella Colazione dei canottieri (1880-1882) di Pierre-Auguste Renoir, che si godono una giornata di completo relax, sulla veranda di un celebre barcone-ristorante del lungo Senna, nell’“isola degli impressionisti” (Chatou). La loro gioia di vivere, duplicata dalla luce che arriva dal fondo della terrazza, è la stessa di un altro celebre quadro di Renoir, il Ballo al Moulin de la Galette (1876), dal nome di un locale di Montmartre frequentato, al tempo, da tanti giovani parigini dei ceti medi e popolari; qui la luce, in forma di macchie di colore che investono irregolarmente la folla delle persone rappresentate, quasi a volerne annullare, nella festosa condivisione di una domenica di bel tempo, la provenienza dai diversi ambienti o settori, è filtrata dalle foglie degli alberi.

Un tutto o un niente, lo stato di felicità, ma anche il tutto e il suo contrario: lo spensierato disimpegno e, sul rovescio della mia medaglia, il buonumore attivo. Il primo è il compiaciuto desiderio di una sospensione dal mondo differita o disattesa di continuo, il secondo è la gratificazione per quel che si fa eccitata dal moto perpetuo. Hilaritas, laetitia, festivitas sono tre diversi modi di esprimere il buonumore in quel latino che ci ha trasmesso anche allegro, per il tramite di una parola (alacer) che, in realtà, voleva dire altro. Non è difficile spiegare il passaggio dall’alacrità, la prontezza o la sveltezza, o la vivacità nell’operare, al brio, alla contentezza, alla gioiosa soddisfazione che perlopiù contemplano. Il rapporto fra la solerzia nell’agire e la giocondità, la letizia, la felicità dell’essere è d’altronde scambievole. Lungo i secoli alacre e alacrità sono stati talvolta sinonimi di allegro e allegria, e alcuni dei significati odierni di queste due voci ricordano ancora qualcosa dell’operosità impastata a ritmo, rapidità, disinvolto movimento delle prime (come per l’allegro musicale, tempo tra altri tempi: veloce, vivace, moderato, andante, largo, grave…).

Anche quando definiamo allegro un certo comportamento è perché abbiniamo, all’imperdonabile disinvoltura o all’irresponsabile leggerezza che presuppone, l’idea che l’una o l’altra possano essere state effetto della rapidità dell’agire. Una rapidità tanto sciolta e improvvisata da apparire quantomeno superficiale, ma al contempo generatrice irriflessa – e genitrice naturale – di una felicità per caso. Se si può essere felici senza saperlo, a me pare spesso di esserlo senza volerlo.

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