(English translation below)
Appartiene alla categoria dei viaggi, e tra questi è l’ultimo. Per questo è il più importante, ma anche il meno, prendendovi parte col corpo ma senza il soffio vitale, codificato in una ritualità che non passa di moda e uniforme, a meno di non spingersi fino all’India o al Madagascar.

A volte si cerca di ribellarsi alla mestizia di questo ultimo atto del viaggiatore, ravvivandolo con scelte predisposte nei dettagli, ma per quanto ci si sforzi le variazioni sul tema sono minime – funerali con più o meno privati, con più o meno discorsi, con la persistenza nei paesi della processione dietro al carro, o con la cerimonia laica o religiosa e la scelta delle letture. 

Elsa Morante volle la musica dei Beatles a Santa Maria del Popolo, il costituzionalista André Auer, in una compassata Ginevra, fece cantare My Way a un po’ tutti i presenti. Portai sulle spalle le loro bare, a passi brevi, gli ultimissimi, e sempre con la sensazione che queste bare volevano fermarsi, essere lasciate a terra, non compiere i passi finali dell’ultimo viaggio. 

Quella di Shireen Abu Akleh è quasi caduta, stava quasi schiantandosi per terra, vacillando sotto l’attacco della polizia israeliana, la quale pare aver fatto di tutto per animare il suo funerale, rendendolo a suo modo un capolavoro, e uno dei più visionati sulle reti del mondo (tra i tantissimi, si veda ad esempio il servizio dell’ABC).

La disinvoltura con la quale la polizia israeliana è intervenuta, strappando bandiere palestinesi, bloccando accessi, disperdendo i partecipanti, ha reso quello di Shireen Abu Akleh un ultimo viaggio come forse lei stessa lo avrebbe voluto: non convenzionale, personalissimo, unico in quanto demistificatore della violenza che durante il suo lungo impegno di giornalista ha sempre denunciato.

Americana e palestinese, palestinese e americana, reporter sempre a volto scoperto, mai una volta che possa essere stata tacciata di antisemitismo, viaggiatrice instancabile per i territori palestinesi, Shireen Abu Akleh colpiva per saper esprimere il massimo grado di professionalità e il massimo grado di testimonianza, lei che era al tempo stesso vittima e reporter, con i due ruoli che si sostenevano a vicenda.

Un volto femminile scomodo  anche per pezzi del potere palestinese, con un suo stile che costituiva a sua volta il massimo grado di una certa classe nel reclamare un atto di verità in una terra dove vige l’impunità e la menzogna. 

Come è accaduto nell’atto di chiusura del suo lavoro. È molto probabile che non saranno seriamente chiamati a rispondere né chi abbia sparato a una giornalista ben individuabile in quanto tale, né i  solerti agenti che hanno provocato la vergogna di un funerale senza pace.

E subito ci si è affrettati ad attribuire la colpa dell’omicidio ai palestinesi, ipotesi sempre meno plausibile per via dei tanti testimoni che hanno visto altro, e poi a giustificare l’azione della polizia ai funerali perché un folto gruppo di agitatori palestinesi si sarebbe impossessato della bara contro al volontà dei famigliari. Per smentire questa ricostruzione, si è scomodato perfino il Vaticano. 

Dopo aver viaggiato per decenni da un luogo all’altro della Palestina, nello scempio generale, Shireen sarebbe forse rimasta soddisfatta del suo funerale –  e da giornalista vi avrebbe realizzato un servizio. 

È l’epilogo tragico di certi viaggi che durano una vita, come quello di Rachel Corrie, indimenticata giovane americana che un bulldozer israeliano schiacciò a Gaza mentre, armata solo di un megafono e di un gilet arancione per renderla ben visibile, cercava di proteggere dalla distruzione una casa di civili palestinesi.

Nei suoi diari,  e nello spettacolo teatrale e radiofonico presentati anche in Italia, questa fine pare annunciata, consapevole dei rischi del suo impegno di volontaria.

Shireen Abu Akleh e Rachel Corrie sono solo alcune delle tante donne coraggiose che hanno percorso cammini accidentati come la Palestina, con epiloghi che non avremmo voluto e funerali che di questi viaggi sono stati il sigillo. 

ENGLISH VERSION

Shireen Abu Akleh, a funeral as
an extension of the trip

It belongs to the category of travels, and among these, it is the very last one. This is why it is the most important, taking part in it with the body but without the vital breath, encoded in a ritual that does not go out of fashion and is quite standard, unless you go as far as India or Madagascar.

Sometimes we try to rebel against the sadness of this last act of the traveller, reviving it with choices prepared in detail, but no matter how hard we try the variations on the theme are minimal – funerals more or less private or public, with more or fewer speeches, with the persistence in the countries of the procession behind the cart, or with the secular or religious ceremony and the choice of readings.

Elsa Morante wanted the music of the Beatles in Santa Maria del Popolo, and the constitutionalist André Auer, in a staid Geneva, made everyone present sing My Way. I carried their coffins on my shoulders, with short steps, the very last ones, and always with the feeling that these coffins wanted to stop, to be left on the ground, not to take the final steps of the last journey.

Shireen Abu Akleh’s one almost fell, she was almost crashing to the ground, staggering under the attack of the Israeli police, who seem to have done everything to animate her funeral, making it in its own way a masterpiece, and one of the most viewed on the networks in the world (among the many, see for example the ABC video).

The ease with which the Israeli police intervened, tearing Palestinian flags, blocking accesses, dispersing the participants, made Shireen Abu Akleh’s last journey as perhaps she herself would have wanted it: unconventional, highly personal, unique in the way it demystifies the violence that during his long period as a journalist he has always denounced. American and Palestinian, Palestinian and American, a reporter always with an uncovered face, never once she may have been accused of anti-Semitism, a tireless traveller through the Palestinian territories, Shireen Abu Akleh was amazing in being able to express the highest degree of professionalism and the highest degree of testimony.

She was both a victim and a reporter, with the two roles supporting each other. A female face sometimes uncomfortable even for sectors of the Palestinian power, with a style of hers which again represented the highest degree of a certain class in demanding an act of truth in a land where impunity and lies are in force.

This is what happened in the closing act of her work. It is very likely that neither those who shot a well identifiable journalist nor the diligent agents who provoked the shame of a restless funeral will be seriously called to answer. And immediately it was hastened to attribute the blame for the murder to the Palestinians, a hypothesis increasingly dismissed due to the many witnesses who saw something else, and then to justify the police action at the funeral because a large group of “Palestinian agitators” he allegedly took possession of the coffin “against the will of the family”. To deny this reconstruction, even the Vatican had to intervene and protest.

After traveling for decades from one place to another in Palestine, in the general havoc, Shireen might have been satisfied with her funeral – and she would have made reported it, as a journalist.

It is the tragic epilogue of certain journeys that last a lifetime, such as that of Rachel Corrie, an unforgotten young American who was crushed by an Israeli bulldozer in Gaza while, armed only with a megaphone and an orange vest to make her visible, she tried to protect from demolition the house of Palestinian civilians.

In her diaries, and in the theater and radio shows performed also in Italy, one can see how she was aware of the risks of her commitment as a volunteer.

Shireen Abu Akleh e Rachel Corrie are just some of the many courageous women who have travelled bumpy paths like Palestine, with epilogues that we would not have wanted and funerals that have been the seal of these journeys.

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