“La vita non deve essere perfetta perché l’amore sia straordinario”.

Così recita il pay off del romanzo di John Green Colpa delle stelle edito nel 2012. Dal romanzo nel 2014 fu tratto anche un film diretto da Josh Boone e interpretato da Shailene Woodley ed Ansel Elgort.

E’ la storia di Hazel Grace Lancaster, una diciassettenne affetta da cancro diagnosticatole all’età di tredici anni. Un giorno Hazel incontra Augustus Waters, ex giocatore di basket con una gamba amputata a causa di un osteosarcoma. Commuovente ed intensa, la storia consente di affrontare il tema della disabilità non più come limite ma come condizione entro la quale vivere tutte le stesse passioni, divertimenti, ed emozioni che può vivere chiunque altro. Senza differenze.

Ecco, io non mi sono mai sentito speciale, ho sempre fatto tutte le mie scelte mosso da un’energia a volte inspiegabile anche per me. Il contatto con la malattia, con la disabilità, per me è sempre stato un fatto naturale e spontaneo e non mi sono mai sentito un eroe per questo.

Penso che ciascuno di noi possa (e debba) imparare a non aver paura della diversità perché è così che impariamo a comprendere e soprattutto a sentire la vera ricchezza. La perfezione ci schiaccia e ci inchioda in una dimensione inautentica che può solo renderci infelici.

La mia storia è la storia di una persona che, come tutte, ama, sceglie e soffre. Anche il mio desiderio di paternità è stato molto naturale, un istinto forte e vitale. L’orientamento sessuale è un fatto accessorio e non centrale ovviamente.

Durante tutta la mia vita sono stato accanto alle persone disabili, me ne sono preso cura, e loro si sono spesso presi cura di me. Sono stati la mia cura. Ho imparato ad accogliere le mie e le altrui imperfezioni come ricchezza e non come vergogna.

Quando ho deciso di adottare un bambino per me non era importante che fosse disabile o meno; così quando ho preso Alba in braccio per la prima volta mi sono sentito suo padre e ho sentito che lei era mia figlia. Niente altro.

Né mi sono accontentato né mi sono immolato. Di certo avevo gli strumenti per affrontare la situazione, ma come ogni genitore mi sono chiesto: “Da dove inizio?”,  “Come farò?” “Che sarà di Alba quando non ci sarò?”.

E poi mi sono buttato, come faccio sempre, con la determinazione di chi crede in se stesso, negli altri e anche in Dio. Ma gli interrogativi e le paure li conosco e li comprendo bene e so che molti genitori con figli disabili (ma non solo) si sentono soli, non hanno una rete né un supporto.

Per questo ho deciso di raccontarmi perché credo fermamente nella condivisione e perché credo che ci sia un forte bisogno di affermare la bellezza della diversità e delle imperfezioni.

Bisogna comunicare la diversità anche attraverso messaggi positivi, senza nascondere le difficoltà ma raccontando la gioia, la ricchezza di una vita apparentemente imperfetta.

Oggi la comunicazione è centrale e cruciale. Nella comunicazione si apre la relazione con l’altro e si crea la nostra identità personale. Per questo motivo comunicare con una persona disabile è il primo atto concreto di inclusione che possiamo compiere come individui.

La dimensione corporea della comunicazione è fondamentale. Se ci si allontana da questa dimensione tattile e concreta ci si allontana dalla possibilità di comprendere a fondo ciò che c’è dentro il corpo: sentimenti, desideri e paure.

Il corpo è un grande veicolo di comunicazione anche se abbiamo perso l’abitudine a leggere i suoi segnali. Pensare all’altro come una persona e non come colui che incarna una disabilità ci conduce verso una relazione spontanea e autentica. La nostra modalità di entrare in relazione, è giusta per noi, ma non è certamente l’unica o la più efficace.

Negli anni ho compreso che oltre le competenze specifiche e professionali esiste un esercizio di civiltà ed empatia che può davvero fare la differenza e condurci verso l’inclusione.

Ho sperimentato che per comunicare e creare una relazione con una persona disabile bisogna rispettare i tempi e le modalità dell’altro, senza imporre il modo giusto (per noi) di comunicare.

Bisogna farci guidare dall’altro nel conoscere il suo mondo e le sue modalità di interazione. Ciò è possibile solo se accetto di stare in silenzio, in attesa, osservando con interesse, accettando che sia lui a farmi comprendere come fare. Bisogna continuare ad esserci: una volta capito come comunicare non ci si può più tirare indietro.

Ma soprattutto ho compreso che nessuna forma di disabilità, è in grado di impedire la costruzione di legami forti e autentici: basta solo trovare la modalità giusta.

A questo proposito mi è venuto in mente il film Il filo invisibile, di cui abbiamo già lungamente parlato qui su Rewriters. Ecco il film ci aiuta a riflettere sulla vera natura di quel filo che ci lega a coloro che ci vogliono bene.

Con il contributo di Natalia Esposito.

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