(English translation below)

A cinquant’anni dalla sua morte, nessuno ha piacere a ricordare Charles Lindbergh (1902-1974). Antisemita dichiarato, ammiratore di Hitler, a fatica reintegrato nel sistema americano nel dopoguerra, a Lindbergh sono restate appiccicate più queste vergogne e il dramma della figlia rapita e uccisa che ispirò L’assassinio sull’Orient-Express di Agatha Christie, che non la sua prima traversata oceanica in solitario a bordo di un monoplano battezzato The Spirit of St Louis. Un volo lunghissimo – 33 ore e mezza – e altrettanto coraggioso che ha fatto la storia dell’aviazione, che nella sua conclusione racchiude un ansia e un paradosso del viaggiatore.

Lindbergh e la meta di Parigi

L’agognata meta, Parigi, è quasi temuta da Lindbergh, perché dovrà atterrare, sempre che ci riesca – che non caschi dal sonno, che il carburante basti, che la meteorologia lo assista, che il motore tenga – in Francia,  paese del quale non ha pensato a chiedere il visto. Precipitare prima o finire arrestato, questo il dilemma. Aveva sottovalutato la gloria dei viaggiatori, e il temperamento die latini: al Bourget fu subito acciuffato dalla polizia non, come sulle prime temette, per essere messo in gattabuia, ma per proteggerlo dalla folla entusiasta accorsa a riceverlo.

È l’esito del suo The Spirit of St. Louis, un libro lunghissimo che pare uscito dalle preferenze dei lettori ma che resta un anomalo classico della letteratura del viaggio aereo: non descrive i paesaggi – sai che roba, la monotonia diurna e notturna di un oceano sterminato – e altro non è che la trascrizione dello sterminato soliloquio dei pensieri di Lindbergh durante la sua traversata. Pensare, ricordare, fare il punto della sua vita, ricapitolare la sua carriera di aviatore e molto altro, e tutto questo per restare sveglio, evitare di addormentarsi al volante: una necessità che in certe circostanze il viaggiatore conosce bene, in un libro in bilico tra introspezione continua e l’immensità degli spazi tra mare e nuvole.

Soffermiamoci su alcune lezioni di viaggio – come la preparazione ante-partenza, prodromo di ogni peregrinazione che non può essere improvvisata:

“Per me la precisione è di importanza vitale. Ho imparato a non fare affidamento sulla gente imprecisa. Ogni aviatore sa che quando i meccanici non sono precisi, gli aeroplani cadono. Se i piloti non sono precisi, e si perdono e a volte muoiono. Nel mio mestiere la vita dipende dalla precisione.”

Oppure il succo del tutto, la molla della sfida, o dell’incoscienza:

“Quale civiltà non è stata fondata sull’avventura? E senza avventura quanto può resistere una civiltà? Cos’è che giustifica il rischio della propria vita? Alcuni rispondo, la ricerca del sapere. Altri dicono è la ricchezza o il potere. Io sono convinto che i rischi che corro sono giustificati dall’amore per la vita che conduco. Sì, il fatto stesso di essere in aria, in volo attraverso l’oceano, verso Parigi, giustifica i rischi di un banco di ghiaccio sotto di me.”

Era un’epoca – ma accade tuttora in certi nostri viaggi – dove l’epica dell’impresa si fa piccola piccola, come quando, ormai prossimo alle coste europee, Lindbergh scorge una barca di pescatori, e scendendo “planando fino a quindici metri dalla cabina”, toglie la manetta e grida con tutta la voce che ha “Da CHE PARTE PER L’IRLANDA?”. E quelli, pur stupefatti dal velivolo i mezzo al mare, si sbracciano per orientarlo. Il suggello conclusivo, tra autocompiacimento e ironia, è la lunga lista che Lindbergh riporta delle decorazioni e omaggi che riceve per la sua impresa transoceanica: medaglie, attestati, riconoscimenti, messaggi di capi di stato e di semplici cittadini, ma anche il regalo di “un cane poliziotto, di razza pastore tedesco” da parte di un “anonimo”, o da alcuni ammiratori belgi, di uno “scialle di pizzo e biancheria intima per la madre del colonello Lindbergh”.

A volte è proprio così: ciò che riportiamo dai viaggi più improbabili, si racchiude in primati presto superati da altri, in libri dimenticati, o in ninnoli da niente.

ENGLISH VERSION

A man of the twentieth century, an undertaking and a book to be rediscovered

Fifty years after his death, no one takes pleasure in remembering Charles Lindbergh (1902-1974). A declared anti-Semite, admirer of Hitler, and reintegrated with some difficulty into the American system after the war, Lindbergh is reminded more for these shames and for the tragedy his kidnapped and murdered daughter (which inspired The Murder on the Orient-Express by Agatha Christie), than for his first solo ocean crossing aboard the monoplane named “The Spirit of St Louis”. A very long flight – 33 and a half hours – and a courageous one, which made the history of aviation, which in its conclusion contains an anxiety and a paradox for the traveller.

Lindbergh and the destination of Paris

The desired destination, Paris, is almost feared by Lindbergh, because he will have to land, provided that he succeeds – that he doesn’t fall asleep, that there is enough fuel, that the meteorology assists him, that the engine holds up – in France, a country of which he didn’t think about applying for a visa. Crash before, or end up arrested – this was the dilemma. He had underestimated the glory of the travellers, and the temperament of the Latins: at the Bourget he was immediately caught by the police, not, as he initially feared, to be put in jail, but to protect him from the enthusiastic crowd who had come to welcome him.

It is the outcome of his The Spirit of St. Louis, a very long book that seems to have emerged from readers’ preferences but which remains an anomalous classic of the literature of air travel: it does not describe the landscapes – being always the same, day and night monotony over an endless ocean – and is nothing other than the transcription of Lindbergh’s endless soliloquy of thoughts during his crossing.

Thinking, remembering, summarizing his career as an aviator and much more, and all this to stay awake, to avoid falling asleep at the wheel: a necessity that in certain circumstances the traveler knows well, which here is well expressed in a book on the edge between continuous introspection and the immensity of the spaces between sea and clouds.

Let’s focus on some travel lessons – such as pre-departure preparation, the precursor to every pilgrimage that cannot be improvised:

“For me, precision is of vital importance. I’ve learned not to rely on inaccurate people. Every aviator knows that when mechanics aren’t precise, airplanes crash. If the pilots are not precise, and they get lost and sometimes die. In my profession, life depends on precision.”

Or the driving force of challenge, or of unconsciousness:

“What civilization was not founded on adventure? And without adventure, how long can a civilization last? What justifies risking one’s life? Some I answer, the search for knowledge. Others say it’s wealth or power. I am convinced that the risks I take are justified by the love for the life I lead. Yes, the very fact of being in the air, flying across the ocean towards Paris, justifies the risks of an ice floe beneath me.”

It was an era – but it still happens in some of our journeys – where the epic of the undertaking becomes very small, like when, now close to the European coasts, Lindbergh spots a fishing boat, and going down “gliding to within fifteen meters of the cabin”, he takes off the throttle and shouts at the top of his voice “WHICH WAY TO IRELAND?”. And they, although amazed by the aircraft in the middle of the sea, indicated the correct eastward direction.

The final seal, between self-satisfaction and irony, is the long list that Lindbergh reports of the decorations and tributes he receives for his transoceanic undertaking: medals, certificates, awards, messages from heads of state and ordinary citizens, but also the gift of “a police dog, of the German shepherd breed” by an “anonymous”, or by some Belgian admirers, of a “lace shawl and underwear for Colonel Lindbergh’s mother”.

Sometimes it’s exactly like this: what we bring back from the most unlikely journeys is contained in records soon surpassed by others, in forgotten books, or in worthless trinkets.

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