Appariscente e schiva come poche città del mondo, a Venezia, nel mese di settembre si apre, come consuetudine, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.

Se il rapporto tra la città e il cinema è sempre stato granitico, fin dalla sua prima edizione nel 1932, il tentativo di questo piccolo intervento non è quello di ripercorrere le tappe della manifestazione ma di indagare la città lagunare come set cinematografico nelle sue particolari peculiarità.

La scelta si sofferma soprattutto su particolari autori che hanno saputo cogliere e strappare l’immagine della città dalla solita iconografia che ci viene restituita dalle produzioni più commerciali.

Venezia è una città profondamente melanconica, il periodo migliore per viverla è l’autunno inoltrato o l’inverno che permette di osservarla con meno turisti, oppure visitarla di notte con il suo silenzio irreale quasi riluttante nel suo aprirsi all’occhio umano. Come ricordava il poeta Iosif Brodskij nel magnifico libro Fondamenta degli incurabili:

«L’atmosfera complessiva aveva qualcosa di mitologico, anzi di ciclopico, per essere precisi; ero entrato in quell’infinito che contemplavo dai gradini della Stazione, e ora avanzavo tra i corpi dei suoi abitanti, passavo davanti al capannello di ciclopi assopiti che ogni tanto, nell’acqua nera che li cingeva, alzavano e poi abbassavano una palpebra».

Luchino Visconti in Morte a Venezia (1971) sceglie di ritrarre la città in maniera indiretta, tutto il lungometraggio è girato interamente al lido. Il regista comprende che l’unico modo per ritrarre una città cosi fortemente connotata dal punto di vista estetico da diventare un vero e proprio simulacro è l’analogia: un pensiero che possa parlare della città evitando di ricadere nel mero ritrattismo da cartolina.

Alla stessa maniera una commedia indovinata e godibile come Pane e tulipani (2000) di Silvio Soldini ci racconta la città evitando di inquadrare i palazzi più famosi e le opere architettoniche conosciute conducendoci nei vicoli, nelle calli quotidiane e anonime: la città non vista dagli occhi del turista ma da colui che la vive. E’ curioso come nella pellicola la città è scoperta da persone che non la abitano ma che dopo l’arrivo la scelgono come città elettiva.

Autori come Orson Welles e Sergio Leone scelgono un sentiero, inconsapevole o meno, che guarda al situazionismo operando un di détournement visivo, cioè parlandone di riflesso. Il regista americano in Otello (1952) sceglie Palazzo Contarini del Bovolo come location anche se nella storia si dovrebbe trovare a Cipro. Sergio in Leone in C’era una volta in America (1984) sceglie di girare alcune scene all’Hotel Excelsior al lido ma nella pellicola dovremmo essere a Long Island: è come se il regista romano volesse parlare dell’America attraverso l’Italia.

Anche nella pellicola Anonimo Veneziano (1970) di Enrico Maria Salerno l’abitazione del protagonista, La Casa dei tre Oci nell’isola della Giudecca, permette una visione inedita della città.

Circa 700 lungometraggi sono stati girati nella capitale veneta nel corso del tempo e sarebbe interessante analizzare nel dettaglio le singole pellicole.

Ritrarre Venezia con la macchina da presa significa immortalarla quasi per caso, di sfuggita, citarla allontanandosi sempre di più, come ricorda Iosif Brodskij:

« In questa città l’occhio acquista un’autonomia simile a quella di una lacrima. L’unica differenza è che non si stacca dal corpo, ma lo subordina totalmente. Dopo un poco – il terzo o il quarto giorno dopo l’arrivo – il corpo comincia a considerarsi semplicemente il veicolo dell’occhio, quasi un sottomarino rispetto al suo periscopio che ora si dilata e ora si contrae».

Condividi: