Dopo l’uscita in ritardo nelle sale a Marzo 2020, a causa del Covid 19, il film Volevo nascondermi del regista Giorgio Diritti approda in sala il 19 Agosto 2020. Dal 7 Marzo di quest’anno è disponibile su Sky. Presentato al Festival di Berlino 2020, il protagonista, Elio Germano, ha vinto l’Orso d’Argento come miglior attore.

Al di là dell’indubbia bravura e grande potenza mimetica dell’attore romano, che infonde potenza e verità al ritratto del personaggio, il regista sceglie un approccio nel racconto non lineare, formato da flashback ed ellissi temporali. Il filosofo Maurice Merleau-Ponty nel suo saggio “Il dubbio di Cezanne” ricorda come:” La pittura è stata il suo mondo e la sua maniera di esistere. Lavora solo, senza allievi, senza ammirazione da parte della sua famiglia, senza incoraggiamento di giurie.” Una linea sottile lega l’artista francese e quello italiano, il filosofo francese continua asserendo:” Sin dall’inizio, la vita di Cézanne non trovava equilibrio se non appoggiandosi all’opera ancora futura, di cui era il progetto, e l’opera si annunciava mediante segni premonitori che avremmo torto a ritenere cause, ma che rendono vita e opera una sola avventura. Non ci sono più qui cause ed effetti, le une e gli altri si raccolgono nella simultaneità di un Cézanne eterno che è la formula di quel che ha voluto essere e, a un tempo, di quel che ha voluto fare. Esiste un rapporto fra la costituzione schizoide e l’opera di Cézanne perché l’opera rivela un senso metafisico della malattia – la schizoidia come riduzione del mondo alla totalità delle apparenze irrigidite e «messa tra parentesi» dei valori espressivi – perché la malattia cessa allora di essere un fatto assurdo e un destino per diventare una possibilità generale dell’esistenza umana quando essa affronta con conseguenza uno dei suoi paradossi – il fenomeno d’espressione – e perché infine è tutt’uno in quel senso essere Cézanne ed essere schizoide.

Il regista annota questa consapevolezza d’essere artista di Antonio Ligabue, cioè colui che disvela, attraverso l’opera d’arte, la verità, ricordando Heidegger. Sono numerose le riprese del protagonista in mezzo alla natura, le sue scorribande con la moto, i suoi continui incontri con gli animali, la libertà e la solitudine coincidono. Malattia, disagio, libera espressione e arte coincidono in Ligabue: viene a cadere l’annosa domanda se il disagio dell’artista ha contribuito alla sua vena artistica. Vedere ciò che gli altri non vedono, come ricordava Paul Klee: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è“.

Giorgio Diritti è attento alla fotografia e compone piccoli quadri con la macchina da presa immobile: lo scorcio di una piazza, dei bambini che giocano sotto ai portici, il tentativo di ricreare dei quadri, con una luce calda che mette in mostra le bellissime architetture in mattoni. Evitando il biopic classico il regista bolognese evita l’agiografia, la figura dell’artista maledetto per restituire il legame inscindibile tra uomo e artista e della sua pittura legata al colore.

Ligabue perde la sua soggettività in favore d’altro, si colma della natura che lo circonda, i suoi quadri sono in costante divenire, un artista che ha fatto della sua vita (inconsapevolmente o meno) un’opera d’arte, o meglio, non vi è tratto distintivo tra vita e opera d’arte.

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