Con Triste Tigre, vincitore del Premio Strega Europeo, Neige Sinno entra nei nostri cuori e rischia di farli a pezzi. Fin dall’esergo un chiaro riferimento a Lolita di Vladimir Nabokov che, non a caso, è tra i testi più citati in questo magma narrativo ricco di rimandi a libri, film e fatti di cronaca.

Perché, nel raccontare la sua storia, l’autrice non si limita a esporre quel che è successo, ma indaga fin nel profondo il rapporto tra vittima e carnefice, i tabù di una società che si trova sempre impreparata di fronte alla pedofilia, il modo in cui il male si manifesta insozzando un’intera famiglia e la comunità di persone che gravita loro intorno.

Di cosa parla “Triste Tigre”

Come si fa ad abusare di una bambina per anni senza dire niente a nessuno? E perché, poi, confessare tutto quando, un giorno, quella bambina ormai adulta decide di denunciarti? Per rispondere a queste domande Neige Sinno prova a descriverci il suo patrigno, il contesto della sua infanzia, il modo in cui lui la obbligava a sottomettersi al suo volere.

Aveva sette anni, forse nove. Ricorda soprattutto i luoghi, le sensazioni, il suo dissociarsi per correre a rifugiarsi in un’altra dimensione. Lui voleva che lo chiamasse “papà”, non sopportava che lei lo tenesse a distanza e che non rispettasse i suoi ordini. Le diceva che il loro era un rapporto unico, che quello che lui le faceva vivere la rendeva speciale.

“Diceva di amarmi. Diceva che era per poter esprimere quell’amore che mi faceva quello che mi faceva, diceva che il suo desiderio più grande era che io ricambiassi il suo amore”.

Il confronto con Lolita di Nabokov

Il primo punto di contatto tra Lolita di Vladimir Nabokov e Triste Tigre di Neige Sinno è la diversa scelta che si ritrova a fare qui l’autrice, raccontando la storia dal punto di vista della vittima. Più volte, in realtà, Sinno insiste provocatoriamente su quanto avrebbe preferito poter entrare nella testa del carnefice e descrivere gli eventi sul modello di Humbert nel celebre testo dell’autore russo. A lei, però, è toccata l’altra sorte.

E, da questa sua prospettiva, prova a slegare vari snodi smontando credenze e falsi miti. No, la scrittura non salva. E no, non esiste alcun lieto fine. Non è per liberarsi che ha deciso di scrivere questo libro, ma per provare a proteggere tanti bambini e bambine, per parlare di un crimine sistemico commesso nel segreto di centinaia di migliaia di famiglie, per impedire che quanto successo possa ripetersi.

Si pensa che chiedere alla vittima di raccontare il suo vissuto sia farle vivere una sofferenza, ma io trovo che insistere nel voler considerare i racconti di abusi sessuali come questioni che riguardano solo i diretti interessati sia anche una forma di rivittimizzazione. Isolare la vittima, fare in modo che si trovi in totale solitudine con ciò che sta vivendo, è quanto fanno i torturatori nei regimi politici dove vige il terrore. Farle credere che da quel momento lei è sola, sola con il suo carnefice, che non c’è più nessuna comunità, più nessuna solidarietà, più nessun senso, più nessuna realtà. Solo tu e io in cantina”.

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