L’immagine in copertina, elaborata da Alessio Vignozzi in arte Il Vigno, è la riproduzione di un’opera d’arte di Jeremy Deller presentata alla biennale di Venezia nel 2013, We sit starving amidst our gold. Ne esiste anche un’animazione. Un omone gigante, quasi un dio o un titano, con un look un po’ demodé e una giacca marrone modesta, scaglia lontano, fino a farlo affondare, uno yacht come se fosse una paperella di plastica in una vasca e non un’imponente nave in laguna. Gli habitué della biennale non avranno stentato a riconoscere che lo yacht è quello del miliardario russo Roman Abramovič, il gigantesco Luna. Abramovič nelle passate edizioni l’aveva ancorato ai Giardini, ostentando ricchezza e, in generale, dando fastidio sia dal punto di vista estetico che morale. Fastidio deve aver sicuramente provato Jeremy Deller, l’autore dell’installazione, dato che lo ha fatto lanciare via da un personaggio che è quanto di più lontano dall’oligarca russo possa essere esistito al mondo: William Morris.

In Italia William Morris è un nome letto en passant sul manuale di letteratura inglese che riguarda l’età vittoriana – forse è più celebre lo William Morris fondatore dell’agenzia hollywoodiana. Devo il piacere di aver fatto la sua conoscenza alla professoressa Paola Spinozzi dell’Università di Ferrara che ha dedicato a Morris molto tempo della sua vita. Del resto, il tempo dedicato a Morris è ben speso, specialmente per chi sostiene che una decrescita felice è l’unico mezzo per non rendere il pianeta inabitabile, dato che la stessa idea di crescita infinita su un pianeta da risorse limitate è contraddittoria e impossibile da far perdurare. Morris, che ha vissuto la prima fase della rivoluzione industriale inglese (e non gli è piaciuta), aveva le sue idee su come invertire la rotta e creare un nuovo mondo davvero felice. Forse peccava di ottimismo e di astrazione, forse era semplicemente avanti di un secolo e mezzo circa. Comunque, tornando all’immagine di Deller, credo che sintetizzi perfettamente sia il presente dell’occidente sia il futuro di Venezia.

La questione Venezia

Ho chiuso lo scorso articolo parlando di questione Venezia e forse è il caso adesso di spiegarsi meglio. Mi aiuterà un paper recente di Georg Umgiesser apparso sul Journal for Nature Conservation. Il problema sollevato dal paper è che il cambiamento climatico antropogenico sta minacciando l’equilibrio della laguna di Venezia. “Se le proiezioni dell’IPCC sono giuste – scrive Umgiesser – potremmo assistere a un innalzamento del livello del mare fra i trenta centimetri e un metro […] alcuni modelli semi-empirici predicono addirittura un innalzamento del livello del mare a 175 centimetri. È chiaro che per una città che mediamente è situata a soli ottanta centimetri sopra il livello del mare, un incremento di questo tipo sarebbe letale.

Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto che l’acqua alta a Venezia c’è sempre stata. Il problema però non è l’evento, ma la frequenza e la portata. Scrive Umgiesser: “In passato Venezia è stata soggetta all’acqua alta a singhiozzo. L’avvenimento più importante c’è stato nel 1966 quando il livello marino ha raggiunto i 194 centimetri. Recentemente il 12 novembre 2019 la seconda acqua alta più intensa ha colpito Venezia con un livello di 187 centimetri. La cosa importante in questo caso è stata che per una settimana i livelli dell’acqua sono stati molto alti e dopo quattro giorni hanno passato i 140 centimetri, cosa che classifica questo tipo di acqua alta come eccezionale. Negli ultimi cento cinquant’anni di eventi come questo ce ne sono stati ventitré di cui nove prima del 2000, quattordici in questo millennio e cinque negli ultimi due anni.

Venezia deve quindi tenersi pronta a un futuro difficile che, a seconda di quanto verranno rispettati i patti per non esacerbare la presenza nell’atmosfera di anidride carbonica e gas serra e conseguentemente non sballare il ciclo dell’acqua, potrebbe addirittura renderla impossibile da abitare. I veneziani sanno già leggere i segni del cambiamento in corso, ne accenna anche il toccante documentario Molecole di Andrea Segre. Altrettanto noto è il nome del marchingegno che dovrebbe aiutare Venezia ad affrontare il futuro, il famoso (o famigerato) MOSE: una barriera mobile che blocca i flussi del mare che entra in laguna. Il progetto è ambizioso ed è al momento terminato al 90%. A ottobre 2020 la sua pronta attivazione ha permesso di sventare un’altra terribile acqua alta, con una performance migliore rispetto al 2019. Il problema è capire come il MOSE reggerà alle varie possibilità dell’innalzarsi del livello marino previste dai report dell’IPCC. Le varianti in gioco sono molte: anche se la laguna è chiusa a MOSE attivo, il livello interno dell’acqua può lo stesso alzarsi per pioggia, per i fiumi che vi sfociano o per il vento che fa oscillare il MOSE e che può causare perdite d’acqua a partire dai punti di inizio e di fine delle varie paratie. Dato che la chiusura del MOSE viene stabilita per via di previsioni meteorologiche, queste ultime possono anche sbagliare e non per mancanza di professionalità di chi le compie ma perché, ohimè, il clima è un sistema caotico. Il professor Kerry Emanuel, autore di Piccola lezione sul clima, la spiega così:

“La proprietà fondamentale dei sistemi caotici è la tendenza delle piccole differenze a ingrandirsi rapidamente”.

Le previsioni quindi possono sbagliare, è sistematico. L’efficacia del MOSE dipende anche da quanto si alzerà il livello marino: secondo lo studio di Umgiesser, se si arriverà a 100 centimetri il sistema di barriere non riuscirà a difendere Venezia. Se si arriverà a 50 centimetri il MOSE dovrà essere operativo tra le 300 e 430 volte l’anno e, non essendo tarato per una frequenza simile, avrà bisogno di molta manutenzione – senza contare il disagio causato dal blocco dell’accesso alla laguna prolungato per le barche.

La questione quindi è tutto tranne che sotto controllo ed è difficile condividere la fiducia in un “sistema avanzato ed integrato di monitoraggio e previsione” dei rischi del cambiamento climatico, come scritto nel PNRR, se non segue una drastica riduzione dei gas serra nell’atmosfera e – soprattutto – un drastico cambio di mentalità.

Torniamo quindi a quel gigante che lancia via lo yacht di un miliardario che – ricordiamo – ha fatto i soldi specializzandosi in prodotti petroliferi. Venezia, dopo questa breve (e superficiale) panoramica, appare ancora più appropriata per questa scena, e c’è da stupirsi davvero di come si parli molto dei lunghi tempi di costruzione del MOSE o dei suoi limiti intrinsechi e non ci si soffermi su quello che il MOSE sarà costretto a fare se il trend dell’innalzamento del livello marino somiglierà agli scenari delle previsioni. Come per il covid, si fa meno fatica a individuare le innegabili responsabilità umane piuttosto che prendere coscienza degli effetti futuri di un ciclo naturale che l’intervento antropogenico ha già comunque alterato.

E William Morris? Chi era costui? Temo che lo spazio non basti per descrivere uomo, opera e pensiero in due parole. William Morris era larger than life: un sognatore concreto, una persona che ha cercato disperatamente di persuadere i suoi contemporanei che l’industrializzazione andava superata perché non avrebbe garantito felicità e uguaglianza per tutti. È anche l’autore del volume considerato l’ultima utopia occidentale, News from Nowhere, scritto proprio pensando a un’idea di benessere condiviso reale, non imposto ma desiderato e soprattutto per tutti. L’ultima perché dopo di lui l’utopia ha assunto la consapevolezza dark di funzionare bene come ideale politico astratto ma di incarnarsi spesso in distopia se rapportata alla realtà.

Per ora, vi basti questo – ma se siete curiosi e fluenti in inglese, su marxist.org è disponibile il testo per intero.

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