Di mutazione in mutazione ha attraversato quasi mezzo secolo di rock. E’ stato il Sottile Duca Bianco, l’incarnazione della pop star con capelli cotonati e giacche larghe e sgargianti negli anni ’80, il musicista tutto dedito a spostare in avanti i confini del rock negli anni ’90.

Ma con ogni probabilità a David Bowie sarà sempre associato il suo primo alter ego, quel Ziggy Stardust che nella Londra all’inizio degli anni ’70 ha rappresentato semplicemente qualcosa che prima non si era mai visto. Il rock che indossa la maschera. Perché cantanti che si truccavano già c’erano, e basti pensare a Little Richard. Perché lustrini e affini erano già stati sdoganati da Marc Bolan. Perché di rock star in pelle nera era pieno il mondo, da Jim Morrison a Alice Cooper.

L’operazione di Bowie è diversa: il rock entra in rotta di collisione con il teatro e il risultato è il primo personaggio della musica popolare contemporanea: Ziggy Stardust appunto.

Ziggy Stardust, foto presa qui

E la costruzione di Ziggy avvenne proprio nelle prime date del tour di Bowie del 1972. Il 19 gennaio 1972, esattamente cinquanta anni fa, tre giorni prima della celebre intervista al Melody Maker in cui dichiarava di essere gay, Bowie è impegnato nelle prove del suo Ziggy Stardust Tour al Royal Ballroom di Totthenam. Si ferma con alcuni giornalisti. E dice: “L’allestimento sarà sconvolgente, ma molto teatrale. Costumi coreografie, una cosa mai tentata prima“.

E fu così. Sin dalla sua prima apparizione fu chiaro che Bowie non si esibiva soltanto: incarnava le fantasie del pubblico. Dava una cornice sistematica a intuizioni sparse in giro, come avrebbe fatto molte altre volte nel corso della sua carriera. Metteva davanti agli occhi dei fan un mondo assolutamente diverso e assolutamente chiuso in se stesso, dotato di un senso compiuto.

Le fantasie, i sogni e gli incubi di David disposti in un ordine che aveva molto a che fare con il caos. Ma che al tempo stesso voleva essere innovazione assoluta: “Volevo che il suono e l’immagine combaciassero” disse. E fu così, Sound&Vision, come intitolerà una canzone molti anni dopo.

L’ascesa e la caduta di Ziggy Stardust era uno spettacolo totale. Il volto di Bowie che si scioglieva in quello dell’alieno che aveva creato. Uno spettacolo che si muoveva attraverso Five Years, Moonage Daydream, Starman, attraverso Hang On To Yourself e la title track. Strutture perfettamente pop suonate di volta in volta alla maniera dei Velvet Underground o riecheggiando la Berlino degli anni ’30. Tutto condito da “violenza estrema ma in tessuti liberty” come definì il tutto lo stesso Bowie.

E la maschera usata dal cantante gli consentiva di parlare dell’indicibile, della propria coscienza scissa, di desideri impronunciabili e gli permetteva di mettere in scena tutte le contraddizioni rimosse della società inglese del tempo. I giovani londinesi – e poi quelli del mondo – non aspettavano altro: Ziggy il liberatore caduto sulla Terra per trasfigurare l’orribile mondo nella sublime e acida luce dell’arte.

E fu Ziggy Mania. Concerto dopo concerto, paese dopo paese. Tra il 1972 e il 1973 Bowie mise le fondamenta del suo impero. Per poi distruggerlo, nella sera in cui decise di dire addio a Ziggy, di liberarsi della sua maschera. Solo per indossarne un’altra. Solo per cercare nuovi territori. Senza nessuna pretesa di autenticità, senza nessuna intenzione di essere se stesso. Bowie o dell’ambiguità. Una delle zone più oscure e attraenti dell’intera storia del rock.

Condividi: