Aftersun, passo a due cinematografico che indaga la memoria
In Aftersun scopriamo un incredibile esordio alla regia di Charlotte Wells. Un film che è sedazione e seduzione lenta.
In Aftersun scopriamo un incredibile esordio alla regia di Charlotte Wells. Un film che è sedazione e seduzione lenta.
Dilata l’attimo, Charlotte Wells, con il suo film Aftersun (in sala e su Mubi). Un incredibile esordio alla regia, il suo cinema fatto di silenzi e di emozioni – pare – trattenute, che sfrutta davvero l’immagine per raccontare. Non ha bisogno di una trama vera e propria, niente – eppure tutto – accade e niente spiega.
È un groviglio sottile di parole non dette e gesti misurati che crescono, debordando dai contorni ben delineati dei personaggi (Calum e Sophie, interpretati da Paul Mescal – candidato al Critics’ Choice Award, al Premio BAFTA e al Premio Oscar come migliore attore protagonista e la cui sensibilità attoriale innamora già in Normal People – e Francesca Corio).
Non servono neanche grandi dialoghi: poche parole, equilibrate e perfettamente inserite in quei fotogrammi, taciti ma più che eloquenti, di una pellicola riservata, esistenziale, intima e autoriale, dalla sceneggiatura sorda ma parlante: solidissima. E’ un film che procede per sottrazione, infrasuoni e immaginazione, da cui si deduce piano piano, finendo per aggiungere anche pezzetti di sé. Idrata e lenisce, allevia l’ustione superficiale ma spalanca ferite intime, penetrando fino allo strato più profondo dell’epidermide.
Che cosa succede quando tutto tramonta, quando i rapporti inevitabilmente cambiano o increspano, evolvono? Che cosa c’è dopo (il) sole, che cosa resta di quel cielo condiviso?
Reale, a tratti onirica, la vacanza in Turchia di padre e figlia, è sospesa tra sogno e realtà. Gli occhi, curiosi del mondo, sono quelli di Sophie – i nostri – i ricordi o i sogni e l’entusiasmo, pure. La sopportazione è quella di Calum ma ancora la nostra.
Lei aspetta di diventare grande mentre canta al karaoke sentendosi ancora una bambina, lui che grande lo è – con le sue mosse di tai-chi, i suoi dolori, i suoi pianti, i suoi sorrisi e le sue debolezze – si rifiuta di cantare ma si entusiasma ancora e poi corre a ballare.
Sono due facce della stessa medaglia, un prima e un dopo, un’immedesimazione a rilascio prolungato. E quando il viaggio sta per finire, vorrebbero solo durasse più a lungo.
Arriva poco a poco, centellina; lascia interdetti, poi s’insinua nella mente: Aftersun è sedazione (e seduzione) lenta. Che indaga tacitamente e con sguardo quasi documentaristico ogni dettaglio: il mistero dei ricordi e della nostalgia, dei rapporti, dell’essere genitori – per caso o per scelta – o figli – senza sceglierlo e per sempre – e poi figli e genitori insieme. E quindi dell’essere umani, oltre ogni ruolo e gerarchia familiare.
Quel che resta, sono lampi, flash della memoria che danza tra passato e presente, che alterna macchina da presa a handycam, (in)coscienza, malinconia, rimosso e traumi (ir)risolti, sovrapponendo persone e abbracci che non smettono mai di mancare.
Sono colori, suoni e passi frettolosi improvvisati ma altrettanto meticolosi di un ultimo ballo. Lacerante, consolatorio, straziante, liberatorio, sotto pressione (Under pressure – come la colonna sonora,sapientemente scelta): è quello scalpicciare comune verso un domani che,una volta arrivato, spesso, si desidera possa essere ancora, lentamente, ieri.
This is our last dance
This is our last dance
This is ourselves
Under Pressure
Under Pressure
Pressure