Emily in Paris, serie Netflix di cui sono disponibili le prime due stagioni, sarebbe profondamente fastidiosa se non fosse così divertente (in primo luogo per i vestiti, fantasmagorici). La prima stagione aveva scatenato le critiche dei francesi per l’immagine da cartolina turistica che proponeva di Parigi (una montagna di cliché che nemmeno il Sacre Coeur).

La seconda stagione, in onda dal 22 dicembre scorso, si redime con un omaggio al savoir faire francese e un’esplicita critica alla rozzezza commerciale Made in USA – anche questo è un cliché, volendo, ma ci sono anche una serie di trovate narrative originali. È stata appena rinnovata per altre due stagioni: avremo modo di vedere se migliora ancora. 

La storia: Emily Cooper (Lily Collins, un po’ troppe smorfiette carine) arriva all’agenzia di marketing Savoir a Parigi da Chicago come social media manager (quindi scatta foto alla qualunque) e rappresentante del conglomerato USA che ha appena acquisito Savoir. Siccome non parla una parola dì francese, tutti intorno a lei cominciano a parlare un inglese oxfordiano, non solo nell’agenzia dove all’inizio è accolta con freddezza, ma anche per strada.

Qui raccatta fra l’altro un aitante giovane chef di rara bellezza (il francese Lucas Bravo) e un’amica originaria di Shanghai, milionaria cinese in fuga per mettersi alla prova come cantante (l’americana Ashley Park). A contorno i colleghi d’agenzia: l’immancabile gay, qui anche nero, Julien (due piccioni con una fava, Samuel Arnold), il collega eccentrico Luc (Bruno Gouery) e la vera perla dello show, Philippine Leroy-Beaulieu.

Celebre attrice in Francia, già vista su Netflix in Chiami il mio agente (era la moglie di Mathieu) qui è la direttrice dell’agenzia; e da figlia di Philippe Leroy (sì, proprio il meraviglioso Yanez di Sandokan, italiano d’adozione) e della modella Francoise Laurent, cresciuta a Roma, dimostra il suo poliglottismo a metà dell’episodio 8 di questa seconda serie, mettendosi a parlare un impeccabile italiano con vago accento romano (anche Emily in Paris va proprio vista in originale coi sottotitoli, altrimenti perdete le sfumature bi e trilingui).

Mentre Emily combina qualche casino e colleziona qualche successo, si innamora dello chef, che però scopre essere fidanzato con un’altra, con cui pure ha fatto amicizia (questa storia stucchevole anima anche la seconda stagione nonostante un altro love interest e rischia di tracimare almeno nella terza).

Intanto l’amica Mindy canta per strada, dimostrando il suo innegabile talento; e la Sylvie di Leroy si trasforma da acida francese in un personaggio complesso e umano, diviso fra un marito-amico e un giovane fotografo olandese più giovane di almeno vent’anni ma pazzamente innamorato, buon per lei. E’ la vera sorpresa della stagione. Non solo: alla fine ha ragione su tutta la linea quanto alla gestione dell’agenzia, sebbene abbia la tendenza – impensabile per gli americani – a mischiare sesso e lavoro (Secondo lei, i francesi che si sono offesi non hanno senso dell’autorironia).

La serie è creata da Darren Star, ma gran parte degli episodi della stagione 2 sono scritti (con successo) da altri. A contorno: un profluvio di canzoni francesi a fare da tappeto sonoro. Enfasi sul buon gusto francese: la cucina, le case, lo champagne, i ristoranti (e un bel po’ di prodotti inseriti qui e lì a scopo commerciale nella storia).

Una Parigi sempre da cartolina (senza aria condizionata anche nell’afa estiva), e i coloratissimi vestiti improbabili quanto spettacolari non solo di Emily ma di qualunque creatura femmina o gay di passaggio (inclusi un paio di stilisti, uno, mirabile, Pierre Cadault, anziano signore flamboyant, interpretato da Jean Christophe Bouvet). C’è anche una puntata a Saint Trop’. Simpatico il cameo di Kate Walsh (nota come Addison in Grey’s Anatomy) come l’americana incintissima, capa di Emily, che arriva a pestare i delicati equilibri francesi con risultati deleteri in nome del Dio denaro.

Alla fine, un prodotto leggero leggero che si lascia guardare e riesce persino a incantare. Se fossi francese forse lo eviterei come la peste. A proposito: si svolge in un simpatico mondo senza Covid. La protagonista Lily Collins (anche produttrice della serie) ha spiegato che recitavano senza mascherine e le rimettevano appena finita la scena, psicologicamente faticoso ma necessario per “mantenere un senso di gioia e per divertimento quando più ne avevamo bisogno”. Sì, ma un po’ di leggerezza abbiamo bisogno di ritrovarla anche nel mondo con il Covid…

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