Il film vincitore del premio per miglior film straniero agli Oscar 2024 è La zona d’interesse diretto da Jonathan Glazer. Il film è un disturbante adattamento del romanzo omonimo di Martin Amis. Al centro del film c’è la vita privata della famiglia di Rudolph Höss, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Guardare La zona di interesse è vedere una grottesca realtà apparentemente felice, serena e pulita che nasconde l’orrore. L’ordine ma sopratutto la pulizia diventano metafora ossessiva di un terribile atteggiamento: pulire per cancellare la storia.

Il regista di La zona d’interesse ci impone un punto di vista, quello del male, con una semplicità paralizzante. Assistiamo al racconto della famiglia del Mulino Bianco, che sì, ci sembra una favola travestita da incubo, ma che è vera tanto quanto ciò che di disumano è accaduto nel campo di sterminio accanto.

Nel suo discorso agli Oscar il regista e sceneggiatore britannico ha parlato di disumano non solo riferendosi a quel passato ma anche al nostro presente. Glazer ha aggiunto che, in riferimento a quanto accade oggi nella Striscia di Gaza, l’Olocausto deve ricordarci e spingerci a non permettere l’occupazione e la nascita di un conflitto che coinvolga persone innocenti.

La zona d'interesse
di Jonathan Glazer
Hedwig Höss e il suo ultimo figlio in giardino

La zona d’interesse racconta la storia di Rudolph Höss, soprannominato l’animale di Auschwitz, e della sua famiglia nell’anno 1943. Il film ci introduce lentamente in un ambiente in cui da subito capiamo che non è tutto oro quello che luccica. Una famiglia esemplare, felice e una bella casa. Ma qualcosa stride. Al di là della piscina, dopo quel giardino pieno di fiori, c’è il campo di concentramento più grande mai realizzato dal nazismo. Ma al di qua di questo muro, tutto va tremendamente bene. Tutto è al posto giusto, organizzato e pulito. Non vediamo il male. Al massimo lo possiamo sentire.

L’impianto sonoro del film riproduce i suoni della tragedia che non vediamo. Il rombo di un allarme, urla e rumori di macchinari, catene, fango e fischi. Solo a livello sonoro quindi percepiamo la tragedia che sta avvenendo mentre il clima della famiglia Höss è più sereno che mai. Perché la loro favola continui, c’è bisogno di fare sempre una cosa e di farla in maniera ossessiva: pulire.

Pulire, pulire e ripulire la zona d’interesse

L’azione di pulire, che sia fatta dalle governanti polacche, da detenuti, o dai famigliari stessi diventa lentamente un gesto morboso, ripetitivo e alienante. La pulizia degli stivali sporchi di sangue è presentata come banale routine. Quella di un padre di famiglia che torna da lavoro come tornasse da un banalissimo ufficio e non dal campo di concentramento più grande della storia. La pulizia e l’organizzazione degli spazi interni ed esterni della casa sono la garanzia di una vita felice. La perfezione del giardino e dei suoi colori sgargianti distraggono dal grigio e imperante muro confinante il campo di concentramento.

Lentamente la banalità del male si fa sempre più esplicita. Nel bel mezzo di una allegra gita padre figli, mentre il padre pesca e i figli giocano, l’acqua del fiume si fa torva, sporca o, semplicemente vera. Sono le ceneri del campo di concentramento che si disperdono nel fiume. Il padre scopre una parte di cranio umano trascinata dall’acqua e allora quel quadro di famiglia perfetta si rompe per confrontarsi con la realtà dell’Olocausto. Bisogna correre ai ripari. Tirare i bambini fuori dall’acqua e pulirsi. Pulire pulire pulire. Finché la storia non si cancella dalla loro pelle, finché non li tocca più. Perché l’umanità è stata sciacquata via, cancellata, sterminata. E allora il sogno di realtà, la favola, può ricominciare. Ma, da serena e ben organizzata, questa realtà è ora tremendamente plastica. Un’esplicita scenografia che sprigiona morte.

La zona d'interesse
di Jonathan Glazer
La famiglia Höss distesa sulle sponde del fiume

Il paradosso della pulizia

Il finale esplicita il paradosso della pulizia. Improvvisamente, arriviamo ai giorni nostri, dove addetti alle pulizie si occupano della pulizia e manutenzione del museo di Auschwitz. C’è chi spazza via polvere, o cenere, dalle camere a gas in mezzo a piccoli cartellini descrittivi. Persone che puliscono vetrine al di là delle quali ci sono montagne di scarpe, vestiti, valigie. Forni che vengono puliti come oggetti privi di significato. E tutto risulta tremendamente assurdo e ovviamente necessario allo stesso tempo.

La zona d'interesse
di Jonathan Glazer
Rudolph Höss fuma sul patio di casa sua. Sullo sfondo il campo di concentramento di Auschwitz

Luoghi e oggetti che rappresentano migliaia di vite umane stridono con l’azione meccanica e a tratti disumana di pulire. Un’attività così semplice acquista le parvenze di una violenza. Ci viene da chiederci cosa ci sia da pulire, come si possa fare pulizia lì, in quelle camere, davanti a certe foto. Perché improvvisamente ci sembra di compiere la stessa azione che fino a quel momento si è svolta nella zona d’interesse: pulire la storia per non macchiarsi l’anima. Luoghi che hanno ospitato una tragedia mondiale vengono puliti con la freddezza di chi svolge un lavoro, con l’operosità di chi pulisce un vetro, senza guardare cosa c’è al di là.

Eppure questa azione così brutale è figlia dell’opposta volontà di ricordare la storia, tenerla viva nella memoria. Da una parte quindi percepiamo un disgustoso senso di cinismo dall’altro un’operosa difesa della memoria storica. La zona d’interesse costruisce un paradossale, diverso e nuovo confronto con la nostra storia e con il modo in cui questa viene ricordata.

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