Francesca Fini e il genio femminile della crypto-art
Dall'arte digitale alla crypto-art certificata con Blockchain: la rivoluzione democratica di Francesca Fini & Co., che sposta il possesso dal materiale all'immateriale.
Dall'arte digitale alla crypto-art certificata con Blockchain: la rivoluzione democratica di Francesca Fini & Co., che sposta il possesso dal materiale all'immateriale.
Il fenomeno riguarda anche l’Italia: da qualche mese l’arte viaggia su tele digitali. Si chiama crypto-art perchè è venduta in crypto-valuta, certificata tramite tecnologia blockchain: “Nella crypto-art – spiegano i professori associati Chiara Giachino del Dipartimento di Management dell’Università di Torino, membro della Sima (Società Italiana di Management), e Teck Ming Terence Tan dell’Universita di Oulu in Finlandia – ciascun lavoro d’arte è unico, è registrato sulla blockchain con i Non-Fungible Token (NFT), certificati di attendibilità digitale che certificano la corretta origine dell’opera e la rendono scambiabile liberamente, senza l’intervento di intermediari“.
Gli artisti usano un contratto intelligente (smart contract) basato su blockchain per assicurarsi di ricevere la fee per ciascuna delle transazioni che potranno avvenire dopo il primo scambio: “Non è facile stabilire una corretta quotazione dell’opera digitale perché il valore delle crypto valute è soggetto ad un’alta volatilità – spiega il crypto-artist Ulisse Poggioni, autore del progetto Phink e dell’opera in copertina, venduta in crypto valuta (´vedi qui l’intervista). Per entrare nelle collezioni delle gallerie di crypto art riconosciute, occorre essere un crypto artist quotato, concetto che, tradotto in digitale, significa anche numeri di follower. Però ci sono anche gallerie d’arte digitali ‘open’, accessibili a tutti, artisti affermati e non, quotati e non“. Come OpenSea, il più grande marketplace certificato NFT dove scoprire, collezionare e vendere oggetti digitali, arte inclusa.
E le donne? La crypto-artist italiana più famosa è Francesca Fini, artista pluridisciplinare, performer e attivista, tra le prime cyber artiste italiane. Protagonista dell’iconica prima edizione della International Performance Art Week di Venezia e ben due volte artista residente al Bob Wilson’s Watermill Center di New York, ha da poco lanciato la piattaforma super-psichedelica De Pink, luogo digitale che accoglie riflessioni sul rapporto tra arte in pixel e le potenzialità del web ma anche palcoscenico virtuale dove guardare i suoi due spettacoli di crypto-art interattivi tramite cellulare e realtà aumentata: Pink Noise 1 e Pink Noise 2.
Due spettacoli che sono stati caricati su blockchain attraverso il sistema Verysart, piattaforma che permette di autenticare le opere, rilasciare edizioni limitate, e certificazioni ai collezionisti. Da lì agli NFT, dove ha venduto alcune stampe del guscio della Venere di Milo manipolata in 3D e trasformata in sculture di realtà aumentata (le stampe hanno l’immagine di questo guscio e sotto il QR code che attiva la realtà aumentata).
“Il dibattito è acceso proprio tra i marker – ha detto Fini – ossia gli artisti digitali che avevano già un loro seguito prima degli NFT. Sicuramente c’è una democratizzazione, perché qualsiasi ragazzo che ha talento si può collegare in rete, pubblicare il suo pezzo e magari entrare nel radar di un collezionista, sopravvivere e vivere del suo lavoro. Allo stesso tempo, si tratta di un mercato ancora agli inizi, un mercato ‘beta’, farraginoso. Ci sono ancora dei problemi da superare: uno pratico, su tutti, è la gas fee ogni volta che fai una transazione. Pubblicare un’opera digitale nella blockchain è una transazione economica, e quindi implica un dispendio di energie, che significa dei computer collegati tra loro: la rete è decentralizzata, sono privati cittadini quelli che tengono in piedi la blockchain. La gas fee della moneta che in questo momento è usata per le transazioni nell’arte digitale, l’Ethereum, è molto alta. Quindi, da una parte sì, c’è un processo di democratizzazione, perché viene offerta una grossa opportunità, ma dall’altra se non si hanno dei soldi da investire si torna al problema della chiusura elitaristica. Proprio per questo motivo, però, si stanno creando monete alternative per pubblicare gli NFT; vi sono delle monete che sono molto più accessibili, come il Tezos o il Wave, per esempio. Il mercato si sta ponendo questo stesso problema, sta cercando di aggiustarsi, perché il mercato sono gli stessi utenti, e loro sanno che non tutti possono avere 200 euro da spendere ogni volta che devono pubblicare qualcosa (questi sono i costi). Di fatto è un mercato che si auto-aggiusta e si auto-sistema, perché è un mercato dal basso. Si troveranno delle alternative all’Ethereum (adesso, per esempio, sta uscendo l’Ethereum 2.0). Io sono molto fiduciosa, perché tutto questo, che è in divenire, è nato proprio per democraticizzare il mercato“.
Non solo. La vera rivoluzione della crypto-art riguarda il passaggio dal concetto tradizionale di “ownership” a quello di “digital ownership”: si tratta, adesso, di un’immagine che non si può appendere in casa nè toccare con mano. Si può guardarla sullo smartphone, sul computer, o avere una cornice digitale NFT, come con la digital art di Beeple, il terzo artista vivente più quotato al mondo (da Christie’s una sua opera è stata battuta a 70 milioni di dollari).
Tra poco, a quanto pare, si potrà anche vedere token per le gallerie d’arte (cioè, asset tokenization): un’opera famosa reale potrebbe cioè essere tokenizzata utilizzando la blockchain ed poi distribuita come token di sicurezza che permetterebbe ai collezionisti di possederne una frazione, come una partecipazione in quota parte, una multiproprietà o proprietà frazionata.