“Giorgio Albertazzi: il teatro è vita”: conversazione con Pino Strabioli
Alla 18esima Festa del Cinema di Roma il docufilm per i 100 anni della nascita di Giorgio Albertazzi. Ne parliamo con Pino Strabioli.
Alla 18esima Festa del Cinema di Roma il docufilm per i 100 anni della nascita di Giorgio Albertazzi. Ne parliamo con Pino Strabioli.
Cento anni fa nasceva Giorgio Albertazzi, attore consapevole, dall’ambizione luciferina, dal primo piano penetrante, dall’articolazione unica delle parole e dalla sensibilità nevrotica della recitazione. Lo raccontano Pino Strabioli e Fabio Masi, con un docufilm dal titolo Via Sicilia 57-59. Giorgio Albertazzi. Il teatro è vita, presentato in anteprima il 28 ottobre alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
La scrittura e la regia di Strabioli e Masi conservano l’eredità lasciata da Giupponi e Albertazzi, attualizzandola. Partendo dalla triste realtà dei teatri italiani abbandonati, ieri come oggi, la narrazione unisce denuncia e celebrazione, al centro delle quali troneggia Re Giorgio.
Allievo di sé stesso, curioso, vanitoso, impetuoso, seduttore spregiudicato, spesso amato, a volte contestato, Albertazzi rivive sullo schermo attraverso un doppio piano di racconto, arricchito dal repertorio delle Teche Rai e dall’Istituto Luce: il primo ambientato al Teatro Quirinetta, chiuso da oltre cinque anni, dove un gruppo di giovani attori lavora per riaprirlo e organizzare una nuova stagione teatrale; il secondo rappresentato da una lectio magistralis del Maestro Albertazzi, nel Teatro delle Arti, in Via Sicilia 57-59 a Roma, fondato nel 1937 e chiuso da alcuni decenni.
Pino Strabioli (conduttore, attore, autore e regista) ripercorre la costruzione del documentario che celebra la nascita e quindi la vita di un maestro del teatro, che – tuttora – continua ad insegnare.
Come nasce l’idea che da questi piani sovrapposti traccia il ritratto di Re Giorgio?L’idea nasce in maniera molto spontanea e casuale. In occasione del centenario ho presentato al Teatro Argentina la riedizione del libro “Un perdente di successo” (autobiografia di Giorgio Albertazzi, edita da Rizzoli, ndr) con Mariangela D’Abbraccio che ha avuto un percorso di vita professionale con Giorgio Albertazzi. C’era anche Pia de’ Tolomei, moglie di Giorgio. Per le casualità della vita, un giorno mi chiama Alessandra Infascelli, produttrice del film, dicendomi di avere del materiale che tiene nel cassetto: una lunga riflessione, un flusso di pensieri che Alessandro Giupponi ha ripreso all’interno del Teatro delle Arti e il protagonista è Giorgio, girato nel 2015 quindi pochi mesi prima della sua morte. Poi è venuto a mancare anche Giupponi e lei l’ha tenuto lì per anni. Questo materiale che ha condiviso con me mi ha colpito in maniera profonda: sia perché ho conosciuto Giorgio, l’ho intervistato, visto a teatro tante volte, ho mangiato con lui e ho rivisto tutta l’energia, il fascino che mi aveva trasmesso in quegli incontri; e sia perché in queste immagini c’era un uomo vecchio però ancora vivissimo, con il progetto di riaprire il Teatro delle arti di Anna Proclemer, sua compagna di palcoscenico e di vita, dove aveva incontrato Anna Magnani, Peppino De Filippo, Sergio Tofano.
Che cosa significano questi due teatri?
Nel racconto ambientato in questo Teatro delle Arti in sfacelo, distrutto, fatiscente, polveroso, Albertazzi evoca una nostalgia, senza calcare mai sul tragico, i fantasmi del passato, con una grande spinta: la voglia di riaprire questo teatro. C’erano quasi riusciti con Giupponi e con la stessa Infascelli. Avevo letto da poco la notizia dei cinquecento teatri chiusi, in Italia. Ho pensato che se non ce l’ha fatta un colosso come Giorgio Albertazzi, chissà che fine faranno a riaprire tutti questi teatri…
Avevo già collaborato con Fabio Masi, dedicando un ciclo di puntate televisive a diversi attori del passato e gli ho chiesto se volesse condividere anche questo progetto. Abbiamo preso degli attori in erba, alcuni addirittura debuttanti, creando questo piccolo gruppo rivoluzionario che ha l’obiettivo di riaprire i teatri in Italia. Li abbiamo messi difronte alla storia: hanno visto questa confessione, meravigliosa, di Albertazzi che abbiamo poi condiviso e rimontato con del materiale di repertorio (dell’Istituto Luce e delle Teche Rai). Nel docufilm si vedono facce giovanissime stupite, incantate, emozionate mentre ascoltano il racconto di Giorgio. Abbiamo cercato di non tradirlo mai, lasciando tutta la forza di Albertazzi.
I ragazzi si trovano all’interno del Teatro Quirinetta con l’intento di riaprirlo: è simbolico. È uno dei tanti teatri – insieme all’Eliseo, il Valle, il Teatro della Cometa, il Globe che vogliono abbattere, il Teatro Flaiano – per citare solo quelli romani – chiusi. È stata una associazione spontanea. I ragazzi sono lì per riaprire il Quirinetta mentre vedono un Albertazzi che vuole riaprire il Teatro delle Arti. È anche una denuncia ai teatri chiusi. La presenza dei giovani è fondamentale: Giorgio, in quel Teatro delle Arti, avrebbe voluto creare una ‘scuola di dissuasione’ all’attore, al teatro. Abbiamo utilizzato come colonna sonora la musica di grandi musicisti come Stravinskij che lo stesso Albertazzi cita. Amava molto anche il sax e così ho chiesto a Ernesto Dolvi, giovane musicista, di comporre le musiche. Il Teatro delle Arti poi si trova in via Sicilia che affaccia su via Veneto e noi ricordiamo anche Fellini. La stessa via Veneto è morente. Dolvi suona in una via deserta… nel docufilm c’è un po’ di malinconia, un po’ di poesia, un po’ di denuncia, suggerita dal tono di Giorgio: disincantato e speranzosa.
‘Il teatro è vita’ ma, appunto, molti teatri sono morti, chiudono o stentano restare vivi. Perché è così faticoso fare teatro?
Non è industria e non crea un profitto. Il teatro è un arricchimento dell’anima e delle emozioni e non delle tasche. Probabilmente perché da anni i fondi per il teatro sono mal gestiti e mal distribuiti. Il teatro non morirà mai, ce la farà e di questo sono convinto, però è dimenticato. È dimenticato dalla televisione, io l’ho fatto per anni ed è sempre stato faticoso riuscire a veicolare il teatro in televisione. È dimenticato anche dalle Istituzioni. È davvero un lavoro di resistenza, quello del teatro.
Lei è tra pochissimi che porta il teatro in televisione. Il suo programma Colpo di scena ne è la testimonianza e un’intera puntata è dedicata a Giorgio Albertazzi (tra i primi a capire la forza della tv, la stessa tv che nel 2004 lo unisce all’amico Dario Fo, proponendo il primo ciclo di lezioni-storia su Il teatro in Italia). Che rapporto c’è oggi tra teatro e televisione?
La televisione – specialmente la Rai – dovrebbe sentirlo come un obbligo, quello di diffondere e raccontare il teatro. Io credo nel racconto del teatro, non nella ripresa dello spettacolo teatrale. Già Eduardo De Filippo capì che per portare il teatro in televisione, è necessaria una regia televisiva: non si possono posizionare le telecamere e riprendere. Tanto è vero che quando vediamo “Natale in casa Cupiello” ripresa da Eduardo, siamo difronte a un prodotto televisivo che ci racconta una grande pagina di teatro. Io il teatro l’ho solo raccontato, intervistando prima a “Cominciamo bene”, poi a “Colpo di scena”, poi con Maurizio Costanzo, le puntate dedicate a Carmelo Bene, Paolo Poli, Piera Degli Esposti, Carlo Giuffrè, Dari Fo, Fanca Rame, Franca Valeri… mi raccontavano le loro esistenze. E grazie ai loro racconti capisci anche l’importanza del Teatro. Lo stiamo un po’ perdendo ma ha un grande fascino. Degli incontri con Giorgio ricordo l’umanità e il suo vivere il teatro come una missione. “Io vivo con Dante, con Shakespeare e con Adriano”, diceva. Paolo Poli diceva “Io vivo con Dante e con i miei letterati”; Dario Fo ha dedicato l’intera vita al palcoscenico. Come Mariangela Melato, dimenticata. Dobbiamo trovare la maniera per celebrarli, non tanto per onorarli ma per capire quanto queste esistenze abbiano tracciato una prospettiva di vita e di visione bellissima.
Il rapporto di Albertazzi con la televisione è sempre stato ottimo: prende parte ad alcuni sceneggiati come Jekyll (1969) che avvicinano il pubblico meno colto a grandi romanzi. Il teatro in televisione può ancora esistere?
Può esistere il racconto del teatro in televisione. Come si racconta la canzone attraverso il Festival di Sanremo. Anche il teatro e i suoi grandi protagonisti raccontano l’Italia, la Storia. Il teatro è un atto politico. In un tempo in cui tutto è social, tutto è tecnologico, il teatro resta un momento vero di aggregazione. Si dovrebbe rieducare al teatro perché c’è, esiste, anche nelle nuove generazioni, con Elio Germano, Edoardo Leo, Filippo Timi, Anna Foglietta, Elena Sofia Ricci. Ci sono attori famosissimi grazie alla televisione che poi ogni anno si ritagliano uno spazio per fare teatro, non certo per guadagnare ma per un’urgenza interiore. Questa è la forza del teatro.
Giorgio Albertazzi ha definito sé stesso, appunto, un perdente di successo. Un perdente per distrazione, sensibilità, capriccio. Perché celebrarlo?
È stato uno dei protagonisti del teatro moderno. E non solo. Il documentario si apre proprio con un’intervista che Albertazzi fa per la televisione, dopo aver interpretato la pièce L’idiota di Dostoevskij (sceneggiato televisivo prodotto dalla Rai e trasmesso in sei puntate dal 26 settembre al 17 ottobre 1959, ndr). “Basta dire che il pubblico vuole certe cose!“, dichiara: è il pubblico che per strada, lo riconosce, lo ferma, lo ringrazia per le emozioni che ha trasmesso. Ma anche perché li ha invitati a leggere Dostoevskij. E se anche non tutti lo leggeranno, almeno sapranno che è esistito! Quello era servizio pubblico: significava educare, incuriosire al teatro ma anche alla grande letteratura. Lo stesso è stato per Jekyll, il primo con gli effetti speciali, con gli occhi che diventano trasparenti. Giorgio Albertazzi ha fatto un lavoro di divulgazione con la televisione e con il teatro. È stato sempre curioso e, insieme a Vittorio Gassman, ha capito l’importanza della televisione, senza snobbarla, facendone un ottimo uso. La televisione è servita anche a veicolare la grande letteratura e la poesia. Va celebrato quindi per quello che ci ha lasciato, per l’eredità culturale. Non vorremmo però che questo documentario restasse solo una celebrazione per i cento anni. Ci piacerebbe portarlo al Teatro Argentina di Roma, al Teatro La Pergola di Firenze, dove è nato, e poi al cinema e in televisione. Credo che uno spazio per Giorgio Albertazzi si possa e si debba proprio trovare.
Uomo, attore anomalo e di classe, protagonista, seduttore, un dandy e uno snob. Quale sfaccettatura della sua personalità mette in luce il documentario?
Le mette in luce tutte e le nasconde tutte. Perché è vecchio, ha la bellezza della vecchiaia, la consapevolezza del tempo che è ormai passato. Mantiene certi vezzi, parla delle cosce delle donne ma ha questo distacco felice da ognuna di queste classificazioni, pur mantenendole tutte. Le evoca. Sa di essere ancora bello, sa che è stato bellissimo; sa che è stato contestato ma sa che è stato amato: ha e dà un grande senso di libertà e consapevolezza.
Qual è il quid – rispetto ai tanti interpreti – che gli ha permesso di mettere in scena Amleto di Shakespeare all’Old Vic di Londra (apprezzato anche da Laurence Olivier) con la regia di Franco Zeffirelli (1964)?
Albertazzi ha iniziato a fare teatro – racconta lui stesso – perché una bella ragazza l’ha incontrato sul tram e glielo ha proposto. Ma non ci pensava, al teatro. Pensava alle donne! Aveva un po’ di incoscienza, era disinibito. È diventato un intellettuale solo dopo. La sua unicità sta nel coraggio, nella bellezza e nel gusto che aveva nell’entrare nelle parole, con rispetto. La sua personale lettura del mondo e del teatro lo ha distinto dagli altri. Non era accademico. Era inedito.
«Gassman aveva il corpo, Carmelo Bene il talento. Ma io sono Re Lear e vorrei morire sul palcoscenico», ha dichiarato Giorgio Albertazzi. Quale tra tutti i ruoli che il maestro ha interpretato, Pino Strabioli ha preferito?
Lo rivedo in Adriano (adattamento del romanzo di Marguerite Yourcenar Le memorie di Adriano, 2014, ndr). Adriano è lui, è tutto quello che ha vissuto, è quello che non è riuscito a vivere e che forse avrebbe voluto vivere. L’ha interpretato in età avanzata, quando ormai aveva messo via tante cose. Alla fine, nei suoi spettacoli non recitava più, le battute le sussurrava. Aveva spazzato via tutto. Per me resta Adriano, anche se nel documentario abbiamo inserito Amleto, in cui ne vediamo l’intensità insieme alla bellezza. Ma con Adriano sembrava proprio fosse lui, ha avuto un transfert con quel personaggio.
Per Albertazzi il teatro è «aver paura di se stessi. Farsi male. È Orfeo che si fa divorare dalle baccanti. Il teatro non ha nulla di pensoso, di contemplativo, di distaccato. È cannibalico. Convoca l’ eros e la morte. Ho sempre pensato che nel grande teatro la parola debba coincidere con il pensiero. Senza questa alchimia il teatro diventa una cosa noiosa: un ripetere le parole, entrando da destra o da sinistra». È questo il teatro che emerge attraverso il film?
Esattamente: torniamo all’importanza delle parole, entrarci, farle proprie e riscriverle. Ogni grande attore riscrive un qualsiasi personaggio. Albertazzi è stato divorato dal teatro e ha combattuto fino alla fine. Non a caso, in questo docufilm, con il bastone arranca nelle macerie, continua a parlare del senso profondo del teatro e della parola. Le parole le ha fatte sue. Anche attraverso lo schermo, in televisione, con il primo piano: aveva questa capacità – che è un dono – di entrare, di guardarti fisso negli occhi. Insieme alla capacità emotiva, di vivere profondamente: Giorgio Albertazzi racconta Shakespeare, Dante, Adriano… ma racconta sempre anche sé stesso.
Insieme a Gassman fonda La bottega delle arti a Firenze, per dare ai giovani – protagonisti del documentario insieme a lui – l’opportunità di fare teatro. Come lo racconta Pino Strabioli alle nuove generazioni?
Proprio come l’ho raccontato in questo film. Ho avuto la fortuna di vederlo per molto tempo al Teatro Santa Chiara, dietro il Pantheon a Roma, in cui teneva dei corsi di teatro. Attingeva dai giovani, acchiappava questa vitalità, era assetato di bellezza e di giovinezza. Lo racconterei quindi come uno dei punti di riferimento per chi voglia fare Teatro – con la T maiuscola – e non l’attore che ballonzola tra una fiction e un reality. Come Gassman, Bene, Poli, Fo… ciascuno a suo modo, anche Giorgio Albertazzi insegna proprio il senso profondo del Teatro. Sono tutti animati dallo stesso desiderio incontenibile: calcare il palcoscenico.
Via Sicilia 57/59. Giorgio Albertazzi. Il teatro è vita
da un’idea di Alessandro Giupponi
scritto e diretto da Pino Strabioli e Fabio Masi
soggetto Alessandra Infascelli
prodotto da Alessandra Infascelli e Paolo Monaci Freguglia
una produzione Polifemo S.r.l.
in collaborazione con il Premio Golden Graal e Growing Production
FESTA DEL CINEMA DI ROMA
MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo – Via Guido Reni, 4a, Roma
28 ottobre ore 20:00
CINEMA GIULIO CESARE– Viale Giulio Cesare, 229, Roma
28 ottobre ore 21:00 – 29 ottobre ore 17:30