Piacerà a Recalcati e seguaci, lo giuro. Ieri sera sono stata alla prima, e sono tornata a casa senza fiato. L’associazione immediata, per insight, è Dogville: lo avete visto, a suo tempo? Vi piacque? Allora fa per voi, andate al Teatro Argentina di Roma a vederlo, c’è tempo fino al 13 giugno. Se avessi il coraggio direi che è un capolavoro, ma non sono una critica teatrale, e ho paura ad espormi troppo. Di sicuro siamo in presenza di una riscrittura DOC, degnissima di aprire la home di ReWriters, e il nostro plauso va a Angela Dematté che, insieme a Carmelo Rifici ci trascina nel pozzo simbolico di Alfredino Rampi (una delle vicende più angosciose della storia della cronaca italiana), facendoci incontrare i nostri lati oscuri.

In poche parole (per farvi capire, sennò vi confondo), sul palco vedete proiettati stralci di sedute psicoanalitiche (vere) fatte agli attori che, contemporaneamente, sono in scena e riproducono – interpretate – quelle sedute, raccontando i loro traumi con parole che, piano piano, diventano il testo del Macbeth. Un flash, come dicono i ggiofani.

“Ci hanno selezionato – spiega il drammaturgo Premio UBU 2016 Tindaro Granata, uno degli attori – attraverso sedute psicoanalitiche, quindi non grazie a un provino. Un’idea pazzesca, molto interessante. Io in scena racconto di un fatto terribile, e da lì.. lo spirito omicida. All’inizio non volevo farlo, portare in scena la mia vita, è stato un lungo percorso con me stesso. E’ uno spettacolo molto complesso, impegnativo per il pubblico, ma è un bellissimo viaggio alla scoperta del Macbeth e di se stessi”.

Sono passati quatto anni dall’Ifigenia, liberata: da tanto tempo infatti Rifici fa questo lavoro, invitando lo spettatore ad assistere, non senza qualche cardiopalma, alla spregiudicata e audace indagine sui classici e sugli archetipi dell’inconscio collettivo. Al Teatro Argentina, questa volta, tocca a uno dei testi più potenti ed evocativi del genio shakespeariano: con il Macbeth, le cose nascoste, si piomba in una riflessione sulla violenza e sul male, in bilico tra finzione e testo che si muove nello spazio intimo delle esperienze personali degli attori, ripercorse sul filo delle suggestioni dell’opera grazie al lavoro dello psicoanalista junghiano Giuseppe Lombardi e della psicoterapeuta Luciana Vigato.

La prima parte dello spettacolo serve all’identificazione del pubblico con la vicenda umana dei vari attori: «la prima parte consiste in un’analisi degli attori coinvolti nello spettacolo – racconta Rificidai loro lati nascosti si passa alla seconda fase, quella del lavoro sui personaggi: Macbeth vuole scoprire che cosa c’è oltre le cose conosciute, vuole distruggere il senso delle cose. La terza sezione è invece legata al mondo infero delle streghe, di Ecate, il mare nero nel quale nuota inconsapevolmente la collettività, la comunità degli esseri umani».

Potentissime le scene, stracariche di citazioni, coltissime, a volte folli, stravaganti, eccentriche, come il nuudo integrale a testa in giù che penzola come un impiccato, altre volte pura minimalità, dove risalta la caparbia interpretazione degli attori (tutti, nessuno escluso, veri mostri di bravura), spogliati del loro ruolo e del loro mestiere, quello dell’attore, perchè invitati a recitare condividendo le loro biografie più intime con lo spettatore, senza più potersi appellare a quello che, appunto, molti uomini e donne cercano, nella carriera attoriale: il nascondiglio di sè.

Uno spettacolo decisamente educativo: “Il Macbeth parla di qualcuno che si confronta co-raggiosamente con il tema dell’ombra – spiegano Giuseppe Lombardi e Luciana Vigato – benché alla fine si dimostrerà non essere all’altezza del confronto che si era posto. Macbeth incontra le Streghe quando è ancora immerso nelle emozioni della battaglia: le sue Streghe sono una voce che viene dalla profondità della terra, dalla materia corporea pulsante. Sono la voce della sua potenza fisica che ha appena messo in gioco e che ora sta per consegnare al Re: nello stesso momento però questa stessa potenza si erige come tentazione di far di se stesso il Re. La potenza potrebbe non essere più al servizio del Re, dello Stato, della comunità di appartenenza tramite la mediazione del patto d’onore che connette la potenza individuale all’essere membro di una comunità. Macbeth è lacerato tra la tentazione inconfessabile della potenza e dell’onore. Rende confessabile a sé e alla moglie, cioè alla propria anima, ciò che era inizialmente inconfessabile: la voce delle Streghe. E qui sta la sua grandezza. Sceglie la potenza, consapevolmente varca, come Ulisse, il limite invalicabile. La sua grandezza è la sincerità con se stesso. Diversamente dai miserabili personaggi di potere che calcano le scene della politica pronti a scaricare dovunque le proprie responsabilità. Macbeth se le assume tutte, anche quando comprende che questo lo porterà alla rovina. Non ha però la grandezza per reggere e vincere la sfida che si è dato e che si rivela più grande di lui. Nel lavoro analitico il confronto con l’Ombra, per quanto doloroso e impegnativo è comunque fattibile, alla condizione di una sufficiente sincerità intellettuale. La difficoltà vera sta nella decisione di cosa fare dell’ombra che si concretizza: non si può più rimuoverla, ma neppure agirla. Il problema è integrarla. Ma o si ha la forza d’animo sufficiente per questa integrazione o se ne è disintegrati”.

Chapeau.

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