Il Nagorno Karabakh è uno di quei posti dove il viaggiatore non va.
Non solo il turista – il Nagorno-Karabakh non figura in alcun pacchetto – ma nemmeno l’uomo d’affari ordinario o il diplomatico, perché il Nagorno-Karabakh non ha ambasciate né addetti commerciali e non è coperto da alcun accordo europeo per la protezione degli investimenti.
Non ci vanno gli studenti, perché l’Erasmus Mundi non si estende al NK, e nemmeno i diplomatici, perché a Stepanakert, la sua capitale, non si trovano ambasciate europee. Non ve ne sono proprio, perché nessuno stato al mondo lo riconosce – nemmeno la sua patria madre da cui dipende in tutto, l’Armenia.
Del Nagorno-Karabakh non si conosce la bandiera, che pure esiste, la moneta in uso, e nemmeno la storia, perché non è studiata a scuola, e questo a dispetto di chiese e siti antichi che dicono meravigliosi. Il paese è talmente misterioso per noi che non ne conosciamo nemmeno il vero nome: lo chiamiamo Nagorno-Karabakh, ma le sue generalità formali (che però di ufficiale hanno poco, non essendo riconosciute) si declinano in modo del tutto diverso, essendo il nome ufficiale un altro e anche più ostico alla pronuncia, “Republicca di Artsakh”. 

Ci troviamo dunque in presenza di uno non stato, appunto non riconosciuto. Il quale, tuttavia, a suo modo esiste, con persone che lo abitano e un’amministrazione che lo amministra. Un territorio fantasma ma che fantasma non è, anzi, è terra di lotta e di sangue. Questa landa incastonata nel Caucaso è solitaria, la sua storia gli è peculiare, tagliata fuori da scambi col resto del mondo. Eppure fa parte di una famiglia non grande, ma nemmeno minuscola,  affiancandosi ad altre entità da cui è divisa in tutto – geografia, lingua, storia – ma anch’esse dal nome raramente pronunciato, come Abkazia, Ossezia meridionale, Somaliland, Transnistria – denominazioni dalla sonorità esotica come Karabakh o Artsakh, bilanciate solo dal più neutro Cipro Nord. Solo per il complesso esito della via dolorosa balcanica, in questa lista non vi figurano più altri nomi difficili come difficili sono le loro terre: Krajina, Kosovo – o Kossovo, o Kosova – fino al primato di consonanti prive di vocali della bosniaca Repubblica Srpska.

Di questi paesi non conosciamo i nomi dei presidenti – a volte eroi militari, oppure oligarchi locali, dignitari del posto, anche illuminate personalità, oppure (capita anche all’attuale presidente del Kosovo..) signori incriminati per crimini di guerra. Tantomeno conosciamo le ordalie recenti, spesso epopee gonfiate da tanta retorica nazionalistica, spesso complicati intrecci di micro-ragioni di conflitti del villaggio e di macro-ragioni di conflitti epocali, di rese dei conti dell’ultimo momento e di rese dei conti che vengono dai secoli passati. 

Molto si potrebbe scrivere su queste terre-non terre. Ne ho visitate un paio – Cipro nord, un passo anche nell’Ossezia meridionale – ed è sempre un viaggio in un tempo diverso, tra edifici e volti che ricordano sempre la separazione, anche estetica, col resto del mondo che si muove alla luce del sole. I pochi visitatori che vi si sono recati se ne tornano con resoconti da viaggi nel tempo, da fratture geopolitiche, come la Transnistria la cui bandiera è la sola rimasta a sventolare ancora con falce e martello. 

Storie e destinazioni che hanno dell’incredibile, tanto che Jan Morris – che tra i suoi tanti libri ha scritto divinamente su Trieste e su Venezia – è riuscita a confezionare un geniale resoconto di uno di questi stati incompiuti, “Hav”, Faber & Faber. Questa isola-città si trova ai confini tra Balcani, Medio Oriente e Caucaso, regioni zeppe di frontiere che al loro interno si replicano come scatole cinesi. Ingannati anche dalla dovizia di particolari storici, dalle mappe del posto, da riferimenti all’attualità, molti lettori, soprattutto oltre-atlantico, sono caduti nella trappola e hanno creduto che Morris abbia scritto di un paese reale. Lo hanno forse cercato invano sull’atlante, ma non lo potevano trovare – come spesso non si trovano questi luoghi dalla geopolitica precaria – perché Hav è solo un’invenzione, il parametro letterario di queste fragili e sconosciute lande. Jan Morris è riuscita a far assomigliare la sua creazione geopolitica a uno di questi stati-non stati, e ugualmente ha fatto assomigliare questi paesi appartati a dei racconti da fiaba. La sua giustificazione è stata “non essendo riuscita a capire ed esprimere tanti luoghi reali, ne ho inventato uno che fosse l’emblema di questa nuova confusione di genti, di questa crescente incertezza di tutto”

Un proposito nobile, e alla lettura anche spassoso. Ma come sempre accade, la realtà è sempre più varia, imprevedibile e tragica. Così leggiamo anche le notizie che arrivano da questo appartato e ineffabile Caucaso proprio come l’emblema della confusione e del senso di disorientamento del mondo. E queste comunità altre e altrove, fuori dalle demarcazioni riconosciute e da rapporti ordinari, sono paesaggi geografici e storici sempre estremi e affascinanti, ma sono anche luoghi destinati a restare enigmatici e inaccessibili per il viaggiatore, e spesso, come ci ha ricordato in questi giorni il Nagorno-Karabakh (o la Repubblica di Artsakh) dipinti con vero sangue. 

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