Quando, nel 2017, Netflix rilasciò la prima stagione della serie Tredici, serie televisiva statunitense creata da Brian Yorkey basata sul romanzo 13 di Jay Asher, l’idea di parlare in modo così esplicito di suicidio, e per di più di suicidio tra i giovanissimi, era ben lontana dall’essere anche solo pensata, soprattutto in Italia.

La serie, infatti, racconta le vicende che seguono il suicidio dell’adolescente Hannah Baker, la quale ha registrato i tredici motivi che l’hanno spinta a togliersi la vita e lo fa in modo crudo, senza troppi fronzoli o tabù. Anzi, lo fa mettendo in conto che episodi come quelli narrati nella serie succedono sempre più spesso e non possono essere ignorati, tanto da chiudere ogni episodio con la formula “se tu o qualcuno che conosci state passando un momento difficile, visita il sito wannatalkaboutit.

Il merito della serie Tredici

Anche se la serie Tredici è stata accusata dagli americani di aver contribuito all’aumento dei suicidi tra gli adolescenti negli ultimi anni, tanto da aver convinto la produzione a tagliare e modificare alcune scene troppo esplicite, ha senza dubbio aperto un canale di comunicazione su queste tematiche e ha contribuito a creare un filone che serie dopo serie, film dopo film, sta, lentamente, inserendo i disturbi mentali tra quelle che, in linguaggio letterario e cinematografico, vengono definiti conflitti.

Esistono diversi esempi che potremmo fare: l’ultimo in ordine di tempo è la seconda stagione della serie americana Ginny&Georgia nella quale i due protagonisti adolescenti soffrono una di autolesionismo e l’altro di depressione.

Il modo in cui questi due disagi vengono affrontati è, a mio modestissimo parere, perfetto. I due ragazzi vivono le loro vite in maniera normale, scuola, amori, amici; la trama della serie non è incentrata su di loro e sui loro problemi, essi fanno parte della loro quotidianità esattamente come accade nella vita reale.

Anche la delicatezza con la quale viene raccontato lo svelamento del disagio agli amici o alle persone care è una scelta azzeccata. Ginny racconta al padre di farsi male da sola e gli chiede di non dirlo alla madre perché si vergogna, perché teme non capirebbe e perché ha paura che lei possa preoccuparsene troppo e fare qualcosa di stupido. Marcus racconta della sua depressione in modo onesto, riconoscendo che il suo stato mentale non gli consente di occuparsi di altro e allo stesso tempo rischia di essere un ostacolo nelle sue relazioni perché crede che non sia giusto dare agli altri il peso dei suoi stati d’animo.

I conflitti dei due ragazzi attraversano tutta la serie senza essere i veri protagonisti delle puntate ma di fatto non uscendo mai dalla storia. Esattamente come avviene nella vita reale. Non siamo il nostro disturbo, ma non possiamo fingere di non averlo.

“Ognuno di noi combatte una battaglia invisibile” – Marcus Ginny&Georgia

La salute mentale negli States e in Italia

Oltre oceano, quindi, la cultura dello stigma sulla salute mentale inizia a traballare vistosamente. Altra storia in Italia, dove i passi da fare sono ancora moltissimi, anche se Netflix Italia ha scelto di contribuire a questo percorso di crescita e di consapevolezza, rilasciando la serie Tutto chiede salvezza, tratta dall’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli, che si occupa delle vicende di Daniele, un ragazzo che a seguito di una crisi di rabbia incontrollata, viene sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio e ricoverato in un ospedale psichiatrico per una settimana.

La serie, di cui Eugenia Romanelli ha già fatto qui una bellissima e completa recensione, racconta la vita ospedaliera di medici, infermieri e pazienti degli ospedali psichiatrici in maniera un po’ edulcorata rispetto alle testimonianze dirette ma con una particolare attenzione alle varie sfaccettature dei disturbi mentali, dell’uso dei termini, delle diverse sensibilità e delle difficoltà di comprensione da parte di amici e familiari dei ricoverati.

A differenza delle due serie descritte in precedenza, Tutto chiede salvezza è meno crudo di Tredici e decisamente meno calato nella vita reale di Ginny&Georgia. La storia si svolge all’interno del reparto di psichiatria e i disturbi mentali di cui soffrono i personaggi sono di fatto i protagonisti della storia.

Ciò non toglie nulla, però, all’importanza che questa serie può rivestire nella battaglia per portare la salute mentale a non essere più considerata un argomento scomodo e da tenere nascosto. Per dovere di cronaca va detto che un esperimento simile era già stato fatto da Mediaset con la serie Oltre la soglia diretta da Monica Vullo e Riccardo Moscia e andata in onda nel dicembre 2019, ma senza molta fortuna.

La serie, ambientata in un reparto all’avanguardia nella cura di adolescenti con disagi psichici, raccontava la storia dei pazienti ma anche quella del medico che li aveva in cura, la psichiatra Tosca Navarro, a sua volta affetta da schizofrenia. Una serie, a mio avviso ben fatta, onesta e coinvolgente ma probabilmente messa in onda in un tempo e su una rete televisiva non maturi per poter essere compresa a pieno.

In questo, va detto, la pandemia da Covid-19 ci ha dato una mano. Dal 2020 l’idea che la salute mentale esista e non è più una cosa da nascondere sotto il tappeto, si è fatta piano piano strada nell’ideale culturale dell’italiano medio, non fosse altro perché, durante i mesi di lockdown e quelli successivi di distanziamento e quarantene preventive, in molti hanno osservato, su se stessi o sulle persone a loro più vicine, disturbi dell’umore, paure invalidanti, claustrofobia o agorafobia a seconda dei casi, ipocondria dilagante e tutto il corollario.

Probabilmente se Oltre la soglia fosse andato in onda nel 2021 oggi avremmo due titoli da poter usare per raccontare alle persone cosa accade nei reparti psichiatrici e che chi soffre di un disagio mentale è esattamente come qualsiasi altro malato, sia esso cronico o temporaneo.

L’invito è quello di guardare queste serie, di cui vi ho già lasciato i link, non solo per conoscere e approfondire le tematiche, imparare quali parole usare e quali no e prendere consapevolezza della normalità di situazioni come quelle raccontate, ma anche per convincere i produttori che la nostra società ha estremamente bisogno di nuovi strumenti per progredire nella battaglia per abbattere lo stigma.

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