Come reagireste se uno sconosciuto vi dicesse pubblicamente, a mo’ di insulto, durante una discussione che nulla a che vedere con il modo di gestire una relazione sessuale, “ma vai a battere sulla Togliatti?“.

Io non ho dubbi che l’indignazione per essere stata definita una prostituta in modo del tutto gratuito e fuori luogo sarebbe enorme. Lo stesso vale quando durante una partita di calcio i tifosi invitano un giocatore di colore ad “andare a mangiare banane”, o un uomo, non necessariamente gay, a “stare attento a non raccogliere la saponetta in doccia”.

Non sono solo insulti personali, sono modi sottili per far intendere che ciò che accade se qualcuno compie quel particolare gesto allora rappresenta una categoria che non è degna di rispetto.

Ora, ho già parlato di come io non sia una persona che vuole censurare il linguaggio tout court, così come non sono una di quelle che crede che il contesto in cui si dicono certe cose non conti. Il contesto conta eccome, conta la confidenza che si ha con la persona a cui ci si rivolge, conta la pubblicità o meno della discussione, conta la conoscenza che si ha dell’altro e dei traumi dell’altro.

Due esempi su tutti, l’altro giorno sono andata a teatro a vedere Ti racconto una storia di Edoardo Leo, spettacolo che sarà replicato a novembre e dicembre a Torino, Milano e Genova. In uno dei suoi monologhi l’attore ha fatto l’esegesi dell’espressione romanesca mortacci tua, e tutti abbiamo riso e nessuno in platea ha pensato che Leo stesse maledicendo i nostri avi, quello era un contesto in cui ci si può permettere una licenza.

Il secondo esempio è strettamente legato al motivo per cui nasce questo pezzo. Quando ero ragazzina era usanza tra i miei amici, quando ci si salutava, dirsi “oh, fatti vedere” (non c’erano i cellulari all’epoca quindi “fatti sentire” non era contemplato) e la risposta dell’interlocutore era, quasi sempre, “si, da uno bravo”.

Alcune volte ci si spingeva ancora oltre e si rispondeva “sì, da un veterinario bravo” lasciando intendere una discendenza animale. Questo però accadeva, appunto, tra amici. Gente che si conosceva, che non ci metteva cattiveria, che non aveva nessuna intenzione di dare del malato mentale in senso dispregiativo ad un amico. Quindi sì, per me il contesto conta.

Detto questo, veniamo al tema principale di questo pezzo. Sempre più spesso, proprio per via del politicamente corretto che, in alcuni casi legittimamente, impone di non usare più alcune espressioni offensive e denigratorie di una comunità umana e sociale si scelgono modi creativi di insultare gli altri.

Parliamoci chiaro, fuori dal perbenismo, l’essere umano ha, per sua natura, il bisogno di denigrare l’altro per rafforzare le proprie posizioni. Deve sentirsi migliore per potersi convincere delle proprie opinioni e per farlo deve far sentire l’altro inferiore. Questo comporta che, quando alcune categorie di insulti-non insulti, vengono censurate perché l’opinione pubblica le trova aberranti e fa pressione perché ciò accada, il problema endemico dell’uso di termini innocui trasformati in insulti non si risolve, ma spinge le persone a trovarne di nuovi, a colpire categorie più fragili, più deboli, più nascoste.

In questo periodo storico in cui, viva Dio, dare della prostituta a una donna genera scalpore, e usare termini indelicati per categorizzare un uomo come omosessuale, anche quando magari non lo è, proprio per aumentarne la caratteristica insultante, risulta inaccettabile, la necessità di denigrare l’altro si è spostata sui disturbi mentali. Sui social è un continuo “tu stai male, tu sei pazzo, tu non stai bene” e se queste locuzioni potrebbero sembrare ancora innocue o per lo meno superficiali, il peggio si raggiunge con “fatti curare, fatti ricoverare alla neuro, vai da uno psichiatra perché hai problemi seri”.

Sono stata io stessa vittima di queste frasi, scritte con il chiaro intento di volermi offendere. Solo che io, che dallo psichiatra ci vado sul serio, che ho davvero delle disregolazioni emotive e che ho, ormai, assunto un atteggiamento di accettazione della cosa, ho potuto rispondere a tono, però non ho potuto fare a meno di pensare a chi, nella mia stessa condizione o in una condizione peggiore, si sente ancora del tutto inadeguato e trova in queste frasi una conferma della propria inadeguatezza.

E allora, se le parole sono importanti, lo sono sempre e per tutte le categorie alle quali vengono rivolte, eppure non si levano scudi per questo tipo di linguaggio non inclusivo.

La leggerezza con cui si dà dello psicopatico a qualcuno che non ci sta troppo simpatico o del bipolare a qualcuno che ha cambiato opinione, dell’autistico a chi non capisce al volo le cose, del, generico, malato di mente a chi la pensa diversamente fa paura.

L’assoluta superficialità con cui si invita qualcuno a farsi ricoverare in una struttura psichiatrica con la stessa valenza con cui lo si inviterebbe ad andare al quel paese è pericolosa. Perché contribuisce a limitare ancora di più la libertà delle persone affette da disabilità o disturbi mentali, le rende oggetto dell’offesa anche quando questa non è rivolta a loro.

Il paradosso, infatti, è proprio qui. Quando si usano le malattie mentali per offendere qualcuno, non è detto che la persona offesa sia effettivamente affetta da un particolare disturbo, anzi, spesso non lo è o comunque non si sa, per cui in realtà l’offesa è generica, si scaglia più contro la categoria del malato mentale che contro la persona a cui è rivolta. Ed è esattamente lo stesso meccanismo che si innesca(va) con gli altri insulti di categoria.

Le parole della Salute Mentale

Ecco che, quindi, c’è un’altra battaglia che dobbiamo combattere. Oltre ad abbattere lo stigma delle malattie mentali, è necessario abbattere lo stigma delle parole intorno alle malattie mentali. È una battaglia lunga, culturale ed educativa, che dovrebbe partire dalle scuole e dalla conoscenza.

A questo proposito la Regione Lombardia ha predisposto una prima versione del “Glossario sulla promozione della Salute Mentale”, non è ovviamente uno strumento completo e risolutivo ma è un primo pezzo del puzzle che vi lascio qui.

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