Da qualche anno, esattamente dal 2005, il terzo lunedì di gennaio è considerato il giorno più triste dell’anno. Il cosiddetto Blue Monday nasce da un’idea dello psicologo Cliff Arnall che, mettendo insieme una serie di elementi, avrebbe provato a codificare in una data precisa uno degli stati d’animo umani più complessi. Secondo Arnall infatti, il meteo uggioso di gennaio, le passività finanziare dopo le spese natalizie, l’ansia anticipatoria dei buoni propositi e la ripresa della routine lavorativa, portano ognuno di noi ad avere una giornata no proprio in questo periodo dell’anno.

Il Blue Monday, qualche giorno dopo

Il Blue Monday 2024 si è celebrato lo scorso lunedì 15 gennaio, passato qualche giorno quindi possiamo valutarne l’impatto sullo svolgimento della nostra giornata o verificare se siamo sopravvissuti alla tristezza più desolante.

Qualche tempo fa, nelle ricerche per questo articolo, mi sono imbattuta in una serie di consigli utili a superare questo giorno nefasto e non ho potuto fare a meno di notare una certa somiglianza con quelli che vengono dati a chi soffre di disregolazioni emotive senza un minimo di approfondimento della questione.

Si parte dal più classico prenditi del tempo per te e fai qualcosa che ti piace, passando per il dare sfogo alla propria creatività, fare sport per liberare la mente, fare una lista delle cose che ami e parlare con qualcuno di come ci si sente.

A questi consigli decisamente troppo banali e generici, io personalmente, ne avrei anteposto uno forse più utile ma sicuramente meno comprensibile: stai dentro a questa tristezza, accettala, accoglila, cerca di capire da cosa nasce, dalle un ruolo.

Quando nel 2015 uscì nelle sale cinematografiche Inside Out cartone animato della Pixar ambientato dentro il cervello di una ragazzina, la tristezza, rappresentata da un personaggio goffo, con occhiali grandi, di colore blu che si trascina cercando il suo posto nella storia, fece il suo ingresso in maniera prepotente tra le emozioni umane di cui non si può fare a meno, nonostante si tenti di tenerla nascosa.

In un suo editoriale, uscito all’epoca e che mi colpì molto, lo scrittore Massimo Gramellini raccontava come

“Per il pensiero dominante la tristezza non consuma e non comunica, si nutre di astinenze e di silenzi, è antieconomica e dannosa”.

E credo sia per questo, nonostante sia passato del tempo, che i consigli per superare il Blue Monday non contemplano la possibilità di vivere la tristezza per un giorno: perché sarebbe un giorno perso, un giorno inefficace e inefficiente.

Invece la tristezza serve, è utile e funzionale alla nostra sopravvivenza. Il personaggio del cartone ce lo dice chiaramente nella sua presentazione:

“Io sono Tristezza e ho voluto bene a Riley fin dall’inizio, l’ho aiutata a piangere quando era appena nata. Era importante che piangesse in quel momento. Aveva appena fatto capolino nel mondo, un mondo grande e sconosciuto. E lei era così piccola e affamata, aveva freddo e voleva stare al calduccio. Allora si è messa a piangere e ha ottenuto ciò che desiderava” (Tristezza, Inside Out).

La tristezza fondamentale per comunicare

Essere tristi quindi risulta fondamentale per comunicare con gli altri, ma solo se questa tristezza siamo capaci di accoglierla, accettarla e mostrarla al mondo senza remore.

La tristezza è un mezzo di comunicazione forte, forse più forte della gioia, perché, proprio in quanto ritenuta dannosa, nessuno fingerebbe di essere triste. Se siamo tristi e ci mostriamo tristi è molto probabile che la nostra richiesta di aiuto sia autentica e soprattutto che la possibilità di essere felici è, paradossalmente, più alla nostra portata. Non esiste la gioia senza la tristezza, ce lo dice chiaramente il cartone ma ce lo dice banalmente anche la fisica: non esiste la luce senza il buio.

La tristezza, così come tutte quelle piccole paure o debolezze che spesso preferiamo nascondere, ci consente di guardarci dentro e di guardare dentro chi ci sta intorno, di cambiare prospettiva, di conoscerci e conoscere le reali necessità, i bisogni o le debolezze nostre e degli altri. In una parola ci rende umani, molto più di una felicità continua, ostentata e spesso forzata.

Nel romanzo La donna che pensava di essere triste di Marita Bartolazzi (ed. Exorma) succede proprio questo: una donna che pensava di essere triste, in una città senza nome né tempo, cerca chi possa cucirle la coperta di tristezza di cui ha bisogno e finisce per incontrare una serie di personaggi, non si capisce se reali o immaginari, che le danno consigli, la incoraggiano e finiscono per fare un vero e proprio elogio filosofico della tristezza che rende più umili e rispettosi degli altri.

Tutto sommato, forse, ci vorrebbero più Blue Monday in un anno!

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