Una contemporaneità così ammalata di strumentalità anche nelle sue più sottili manifestazioni spirituali e artistiche ha ancora una sua epica? E sarebbe un’epica erede di tracce omeriche o contagiata da afflati di pantheon induista come il Mahabaratao le Upanishad, o piuttosto sadiana da boudoir? Avrebbe  uno spessore sinceramente laico o venato di quella religiosità che più che mai agogniamo in tempi di assembramenti proibiti e proibitivi? E quale agorà eventualmente cavalcherebbe -per essere esposta degnamente durante il sofferto esilio dalle poltroncine rosse marchiato a fuoco dai rischi del contagio e della quarantena se non quella della rassicurante virtualità che oggi attrae a sé ogni focolare intimo?

E’ ai volti intensi e alle voci esperte di  Mauro Racanati, Valerio Di Benedetto, Marco Vergani, Caterina Gramaglia, Paolo Lanza, Giulio Farina, illuminati con soffusione asciutta e mistica da Antonio Grambone, sulle note appositamente composte da Peppe Ricca, che Mariano Lamberti ha affidato la lettura di brani del suo Fukyo, raccolta di poesie – edizioni Nulla die – che viene a chiudere una trilogia rara e preziosa, rappresentata come presentazione in una sorta di recital come negli anni ’70 era consueto.

Indaga il tema della illuminazione spirituale come profonda coincidenza con una natura individuale, difesa a forza dallo sfratto di un costrittivo Super Io, e il racconto accende la parabola di un bodhisattva dotato di virtù rare e luminose come perseveranza, rispetto, capacità di rendere onore all’umanità divinamente implosa di tutti coloro che lo avevano disprezzato, tanto che, ad uno ad uno, divennero suoi discepoli. Fukyo, uno dei  protagonisti del Sutra del Loto, rispettava infatti chiunque facendo una riverenza e un passo indietro anche verso chi gli scagliasse bastoni. A lui sono affiancati nientemeno che Prometeo, il maestro giapponese Ikeda, in una vertiginosa parabola evolutiva, nata dalla mente versatile di Lamberti –sempre e caparbiamente al limite del delirio febbrile dei mistici, raro esempio della categoria ormai quasi estinta dei poeti per nascita (come nasce regista e scrittore insieme) pasoliniano per vocazione, coinvolto nell’impresa epica di sanificazione di una genealogia maschile, nato già libro contro un padre che lo premeva pagina uguale al suo respiro.

Da questo colpo di reni nasce il momento in cui Telemaco sogna di sfuggire alla condanna appunto di una Roccia della infelicità paterna, deserta di emozioni, una depressione plumbea che incatena il fanciullo irrequieto, liberatosi nell’intimità e nel sesso con scatto da puledro in un moto di rischiosa hubris,  segnata da un Aprile scadente, che non incrudelisce mai con Elliot. Radici basse che esplorano quel mondo sommerso di gloria, il mondo dell’autenticità e dell’istinto negato al ragazzino vivo di curiosità incendiaria. Come un Virgilio postmoderno è l’angosciato angelo Pierpaolo a guidare il poeta nella discesa ascesa negli inferi paradisiaci della sua ricostruzione emozionale identitaria animica, abbagliata da una fondante tenerella illusion alla ricerca di una esistenza senza aggettivi, volta a spezzare il ciclo dannato di ripetizioni “come smemorata tragedia farsa di una vita che segue come segugio il suo ciclo eterno”.

È un pensiero che si specchia nell’azione a correggere rughe, allinea ai pianeti e non all’albero di melanconica ascendenza, in una processione progressivamente libera di paesaggi senza nodi alla gola. Da questa partenogenesi si apre al mondo un io rinnovato, “non più forma umana, né speranze di formica, ma ali spiegate al viaggio stellare” dove un maestro guida il gioco, la scelta non la costrizione. Infinito stupore, acqua impetuosa contro un timoroso argine, rendendo il discepolo mappa del mondo tracciata dal suo pensiero di pace. Questa maturità ossequiosa ma sempre più responsabile comincia a farsi largo in quello che qualcuno definì “il gran mare dell’essere” dove però “il mare diventa coscienza e poi un silenzio che ci vuole sordi” può essere irrigato finalmente “un Dharma essiccato con parole senza coltelli” con la naturalezza di una foglia che cade senza sapere di baciare il suolo con quel rispetto dovuto a ogni fenomeno, perché, come in un haiku, “tutto ciò che vive/tutto ciò che ha un nome,/me, te, lago, musica, mosca, formica, su, giù, destra, sinistra, prima, dopo/si chiama Fukyo”.

Il traguardo identitario è raggiunto con la conquista di una autonomia reale, di una libertà responsabile, che si inchina al cosmo, senza rinunciare alla piena assunzione della sua propria intima missione esistenziale. Dunque Fukyo “non insulta lo specchio ma gli regala l’inchino delle stelle” in un apprezzamento pandemico che valorizza anche il dettaglio di una traccia di polvere di un petalo nella dissipazione di ogni schema precostituito, quale ragno a distruggere la tela, cuore come “sipario della notte,/prima del risveglio” “specchio che si rompe per mostrarti l’invisibile”, “festa d’acqua che si rincorre nel tempo/si inchina agli atomi/e alla lieta assonanza di ombre”. E’ il silenzio assordante che chiude il cerchio di partenza, nell’inchino di un soggetto la cui qualità di deferenza è quella del suicidio di un assassino, consapevole che “l’immagine umana,/pulita dal suo cristallo” sia la vera essenza del cuore come del mondo.

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