Criniera folta e bianca, sguardo curioso e spiritato, a gennaio 2021 compierà sessantotto anni: Jim Jarmusch è l’ultimo vero cineasta indipendente americano, al contrario di altri della sua generazione che hanno ceduto alle lusinghe di Hollywood.
Più che dalle scuole di cinema la sua vis filmica è stata segnata dalla conoscenza del grande regista Nicholas Ray che gli ricordava di continuo: «Sii curioso di tutto, fermati a osservare ciò che ti rende felice e cerca di capirne il perché».
Solitamente la filmografia di quest’autore viene definita statica, lenta, costruita su piccoli momenti, un approccio quasi carveriano alla pellicola che ha come riferimento sia Antonioni, sia il cinema della Nouvelle Vague e Robert Bresson.
Tutto corretto ma vorrei cercare un altro punto di vista. Il filosofo Gilles Deleuze parlando della cultura e della fruizione della stessa, nella bellissima video-intervista L’Abécédaire, afferma: «Parto, sto in agguato, ci sarà forse qualcosa da incontrare… un quadro, un film… allora è formidabile. […] Io non credo alla cultura, in un certo modo, quello in cui credo sono gli incontri. […] Ma gli incontri non si fanno con le persone, ma con le cose: incontro un quadro, un’aria musicale, una musica».
Il cinema di Jarmusch è un continuo agguato alla nostra curiosità. Apparentemente svagato, romantico, con i suoi personaggi sui generis in realtà è un cinema indifeso, quasi innocuo ma nello stesso tempo pronto a sorprenderci. Il regista non veicola storie ma veri e propri concetti che si esprimono per immagini. In Broken Flowers Bill Murray, alla ricerca di un figlio di cui non ha mai sospettato l’esistenza, si ferma in un Motel. Al mattino si sveglia e mentre beve il caffè apre la porta della stanza e guarda fuori: una mattina piovosa, il traffico, le auto… Lo Vediamo inquadrato di spalle, la macchina da presa che si avvicina con estrema lentezza. Ecco l’incontro, l’agguato, l’imboscata, da una scena apparentemente poco significativa, una livida mattina piovosa, che qualunque regista non avrebbe inserito, si rivela un mondo: quello interiore del protagonista, la sua solitudine, la sua incapacità di relazionarsi con gli altri, ma si manifesta anche la crisi dell’uomo nella modernità liquida come direbbe il sociologo Zygmunt Bauman.
Jarmusch ci tende un agguato attraverso i suoi personaggi, che per lui diventano il centro del processo creativo, come ricorda in una intervista contenuta nel bel volume L’occhio del regista. 25 lezioni dei maestri del cinema contemporaneo a cura di Laurent Tirard: «Una storia parte dai personaggi, una volta che li ho definiti comincio a immaginare situazioni, intrecci […] il posto in cui metto la macchina da presa sono funzionali al movimento degli attori».
La pellicola Paterson del 2016 vede l’autista di pullman, interpretato da Adam Driver, ripetere ogni giorno le stesse azioni: il risveglio mattutino, la giornata a lavorare, la scrittura di poesie. Apparentemente giorni ripetitivi scarsi di accadimenti, in realtà scopriamo e siamo catapultati in nuovi incontri: la scoperta del poeta americano William Carlos Williams, l’incontro con il concetto del silenzio che qui viene sviscerato in maniera approfondita. Lo spettatore è in attesa di essere sorpreso e il cineasta americano prima elude e poi colpisce. Pochi registi ci hanno offerto di cogliere il senso del silenzio, si potrebbe ricordare Ingmar Bergman e Andrej Tarkovskij.
Nel continuo fluire del tempo il cineasta impone il suo sguardo disincantato, ci sorprende, ci agguanta e ci apre un mondo di possibilità, di conoscenze di incontri con persone che in realtà sono concetti, pensieri. Nelle pieghe di un’estetica minimale ed essenziale si rivela la ricchezza di un regista che in un’intervista del 1989 ci ricordava: «I consider myself a minor poet who writes fairly small poems. I’d rather make a movie about a guy walking his dog than about the emperor of China»
Segnaliamo i due lungometraggi citati disponibili su Amazon Prime Video.