A un paio di settimane dallo spegnimento del braciere parigino, le Olimpiadi più inclusive di sempre continuano a far discutere, dopo aver dimostrato che sullo sport delle donne – o sulle donne nello sport – ci sono ancora troppi stereotipi. E questa realtà si conferma una volta di più mentre si stanno concludendo i giochi paralimpici, in cui assistiamo a uomini e donne compiere prove fisiche incredibili malgrado le avversità che hanno affrontato nella vita, eppure online si stigmatizzano i corpi non conformi e per questo non attraenti.

La cultura dello sport è ancora fortemente sessista e questo era già chiaro ben prima che scoppiasse il pugilato-gate e su troppe testate saltassero fuori titoli imprecisi a investigare nelle mutande di un’atleta e a montare un polverone mediatico non indifferente. Ma non è solo una questione sull’identità delle due pugili questionate: ci sono ancora troppi luoghi comuni.

Sicuramente a Parigi si registrano dei piccoli passi avanti: è stata la prima edizione dei Giochi Olimpici (anche per le Paralimpiadi i numeri sono abbastanza simili, con il 45% delle atlete tra i partecipanti) a contare la parità tra atleti e atlete partecipanti e la prima a includere nell’organizzazione del villaggio olimpico un asilo nido, in modo che gli sportivi che sono genitori (sempre che ci siano papà con figli alle Olimpiadi, visto che sembra sempre e solo un problema delle donne) possano avere con sé i propri bimbi per tutta la durata della rassegna a cinque cerchi. E avvengono anche le prime ripercussioni ai commentatori che fanno battute sessiste durante le telecronache, tra inchieste, richiami e veri e propri licenziamenti.

Certo, non è abbastanza. E molte questioni sono al di fuori del controllo del Comitato Olimpico, quindi non vanno imputate all’organizzazione, tuttavia ci sono parecchi spunti di riflessione. 

Il ruolo ornamentale, prima che sportivo, in cui molte atlete sembrano ancora imprigionate

Da alcuni anni si discute sui compensi e gli stipendi delle sportive – in particolare in certe discipline di squadra – paragonati a quelli dei corrispondenti maschi nello stesso ruolo. L’argomento con cui quasi sempre si controbatte è che lo sport femminile non richiama altrettanto pubblico e quindi non genera pari ritorno economico, pertanto non può restituire pari compensi. 

E se si leggono i commenti online, si capisce quanto ancora le donne non siano percepite come vere atlete, perché i loro gesti atletici non sono paragonabili a quelli maschili. Da qui, la percezione che molti ancora guardino lo sport maschile per lo sport, e lo sport femminile per vedere delle belle ragazze muoversi e agitare le proprie grazie, possibilmente in divise succinte che lascino scoperta quanta più pelle possibile. 

A voler dare ragione a questa sensazione, le divise femminili sembrano davvero create al risparmio di stoffa. Nei mesi scorsi aveva fatto scalpore una proposta Nike per la squadra statunitense di atletica, con un body così risicato da lasciare buona parte del pube del manichino scoperto. Ma da diversi anni la questione è aperta, dalla ginnastica artistica femminile – nel 2021 a Tokyo la nazionale tedesca aveva gareggiato con l’accademica, il body intero che copre anche le gambe fino alle caviglie, contestando l’ipersessualizzazione dei corpi nelle immagini e nelle riprese delle televisioni – al beach volley, all’hockey su prato. 

È mortificante per le atlete – e dovrebbe esserlo per tutte le donne – continuare a sentir dire che lo sport femminile può avere successo solo come alternativa pulita del porno, perché poi di questo si parla. 

Anche perché questo status quo elimina di fatto il diritto a esistere di tutte quelle atlete che hanno un corpo non conforme al concetto comune della donna sportiva, ma anche da qualunque disciplina che non sia considerata abbastanza femminile. E ciò, grazie ai social network, porta alla creazione di migliaia di troll campioni di post dal divano a scrivere cattiverie e oscenità su vere campionesse per incapacità di accettare la loro esistenza e il loro successo. 

Immaginate ad esempio di aver appena vinto un bronzo olimpico nel rugby a 7 e di essere contestata online perché troppo grossa fisicamente, com’è appena successo a Ilona Maher. O di leggere che certo, sarà anche brava, però ha dei capelli orribili di cui dovrebbe vergognarsi, come la pluricampionessa olimpica Simone Biles. O, tornando a un esempio nostrano di qualche anno fa, di essere a giocarti una medaglia olimpica come la nostra squadra femminile di tiro con l’arco e sentirti definire trio di cicciottelle su un giornale nazionale

Oltre al canonico terrore del successo femminile con la corsa a minimizzare il trionfo. La scelta infelice di Repubblica sulla squadra di spada azzurra vincitrice dell’oro olimpico e ridotta a un titolo da barzelletta lo abbiamo letto tutti. Purtroppo. Quasi c’era da ringraziare che Rossella Fiammingo non sia stata inquadrata come “la fidanzata di Paltrinieri”, perché – si sa – è sempre meglio se si può ridurre una donna al possesso maschile, ma forse chi ha scritto quel titolo non era abbastanza ferrato in ambito di gossip. 

Perché la forza (fisica e non solo) delle donne fa ancora così paura?

L’altro aspetto odioso è minimizzare la grandezza del gesto o, se non è possibile, piuttosto accusare l’atleta che lo compie di essere un uomo travestito. È talmente inaccettabile che una donna compia uno sforzo grande come correre più veloce di tutti, sollevare pesi incredibili, lanciare oggetti a distanze incredibili, che è più facile pensare che sia un uomo vero e proprio o un “uomo mancato”, complice magari anche un fisico non conforme.

Il concetto di poco femminile – e più precisamente, poco eccitante, poco sessualmente appetibile – torna spesso nelle critiche alle donne nello sport. Non serve entrare nel caso di Imane Khelif, né in quello di atlete effettivamente scopertesi intersex come Caster Semenya o Dutee Chand. 

Basta invece pensare a Serena Williams, un’atleta che ha vinto tutto nel tennis, forse anche troppo – secondo alcuni – per essere una donna come le altre. E non deve sorprendere che l’accusa di essere un uomo travestito accada molto più spesso a donne non bianche, perché c’è un pregiudizio molto più forte sui tratti etnici più marcati e ritenuti poco femminili, rispetto allo standard di bellezza occidentale. 

Paralimpiadi, quasi il 20% delle nazioni partecipanti non ha mandato nemmeno un’atleta donna

Il Comitato Paralimpico ha annunciato prima della cerimonia di martedì con esultanza il più alto numero di atleti paralimpici e di nazioni della storia dei Giochi, 4.400 partecipanti da 170 Paesi. Si tratta di una crescita importante, considerando quanto ancora le disabilità siano stigmatizzate in larga parte del mondo: non è così scontato per molti stati avere persone disabili in rappresentanza, perciò di certo è un progresso da festeggiare.

Tuttavia, delle 170 delegazioni almeno 33 non hanno nemmeno una donna nella propria compagine. C’è da considerare che di queste nazioni, 27 hanno mandato un singolo atleta a Parigi, ma ci sono anche squadre come la Bosnia e Herzegovina che ha 14 partecipanti, tutti uomini. D’altro canto, 8 delegazioni hanno mandato solo donne, sei di queste una singola atleta, due negli altri casi.

Una discrepanza ancora significativa, considerando che alcuni di questi paesi sono stati a lungo martoriati dalla guerra e dai danni delle mine antiuomo, in particolare, come proprio la Bosnia o l’Afghanistan, che ha mandato solo tre atleti uomini. E tuttavia, proprio una donna afghana ha vinto la prima medaglia paralimpica della storia per la squadra dei rifugiati: Zakia Khudadadi, bronzo nel taekwondo nella categoria 47 kg, fuggita dal suo Paese nel 2021 mentre i talebani riprendevano la capitale.

La rappresentazione delle donne alle Paralimpiadi è fondamentale per alzare un velo di invibilità intersezionale in cui il genere – già in molti contesti nel mondo invalidante di per sé – si somma allo stigma per la disabilità e alla considerazione di inutilità delle persone che ne soffrono.

Uno studio della Croce Rossa ha osservato come nei conflitti armati le donne e le ragazze con disabilità – pregresse o causate dalla guerra – spesso non beneficiano della stessa protezione di altre persone. Ma anche in situazioni pacifiche le donne disabili o malate sono più esposte ai rischi: basti pensare alla particolarità italiana dei femmicidi pietosi: nel 2022 un terzo delle donne assassinate aveva più di 65 anni o conviveva con una malattia o una disabilità, condizione per cui partner o figli o altri familiari hanno deciso che fosse meglio farle smettere di soffrire. Una donna che non solo accudisce gli altri ma ha bisogno che gli altri, gli uomini della sua vita, si prendano cura di lei, nell’ottica maschilista è inutile, nei Paesi di guerra come in Occidente.

Un approfondimento si può leggere in Il corpo delle donne con disabilità: analisi giuridica intersezionale su violenza, sessualità e diritti riproduttivi (Sara Carnovali, Aracne, 2018). Per questo la forza e le capacità delle atlete paralimpiche sono una dimostrazione importante per scardinare altri stereotipi sulle donne e lo sport, ma in generale sui luoghi comuni che affliggono molte donne nel quotidiano.

Condividi: