Ai tempi dei guelfi e ghibellini
C’era subbuglio in tutta la Toscana:
Eran molto nervosi i contadini
Ed i lupi lasciavano la tana:
C’era grande abbondanza di Caini,
Di seduttori e di voltagabbana:
E in una notte con la luna piena
Un cavaliere si accostava a Siena.

Odorava di rosa e di verbena
E cavalcava in maniera perfetta:
Fermi i calcagni e diritta la schiena 
Oscillava in arcione senza fretta.
Prima che mi si esaurisca la vena
Dirò chi fosse, e fosse Enrico Letta:
L’accompagnava un vigile scudiero
E un tipo torvo col cappuccio nero. 

Si fermò presso i muri di un maniero
In rovina. “Speriamo che non caschi”
Disse tra sé, meditando il pensiero
Che quello un tempo fu il Monte dei Paschi,
Dove un dì, giovanissimo guerriero,
Volteggiò tra le sete ed i damaschi:
Era tutto un frullar di caramelle,
Di paggi lieti e di fanciulle belle.

E sospirando contemplò le stelle,
E disse: “passeremo qui la notte. 
Eccoci a Siena, fertile e ribelle,
a raggiustare le pentole rotte. 
Scudiero, dimmi l’ultime novelle 
Sulle tenzoni e sulle bancarotte:
Voglio sapere come vanno i venti,
Dove soffiano i fiati e le correnti”.

E lo scudiero scosse i finimenti
E smontò da cavallo. Indi, seduti
Al fuoco, estrasse certi documenti
E cominciò. “Messere, Dio ci aiuti. 
Perdettero il comune, i maggiorenti
Divisi, reticenti, e prevenuti:
E per la stessa tigna, e per dispregio
Si potrebbe anche perdere il collegio. 

Questa città, che è stata vanto e pregio 
Della Toscana, dove il buongoverno 
È dipinto in affresco, privilegio 
Di Simone Martini, questo eterno 
Silenzioso paesaggio, florilegio
D’ocra e di azzurri che aspetta l’inverno 
Come si aspetta quel che non si sa…”
“Gianni – gli disse Enrico – abbi pietà,

Fammela corta. Ci se la farà?”
“Probabilmente” disse Gianni attento.
Qui la radice è solida, ma già
Si percepisce un disorientamento. 
Ci son domande sull’identità,
Oltre le contingenze del momento.
Per non dire che l’aria è molto strana
Ormai da tempo in tutta la Toscana

Pisa è caduta, dall’Arno alla Chiana
Ondeggiano.  Difetta l’energia,
La somma di soggetti è una lontana
Ombra di quel che fu l’egemonia.
E poi questo governo all’italiana,
Tutti insieme in allegra compagnia 
Intorpidisce quelle effervescenze
valorizzate dalle divergenze. 

La carta verde turba le coscienze:
L’Italia è ricca di intelletti vivi. 
Non passa il gioco delle differenze
Radicali tra i buoni ed i cattivi. 
Son conformisti, a Siena ed a Firenze,
Ma sotto sotto restan sovversivi:
Sovversivi di che, non si capisce,
Ma sguscian sempre via come le bisce. 

Oltretutto, la cosa che avvilisce
È che pare perduta fantasia,
Quella virtù che ti ringiovanisce,
Chiamala sogno, chiamala utopia
:
E senza sogni la gente patisce,
Manca la gioia e manca l’allegria:
Anche baciarsi ridere e cantare
A farlo sembra ormai di lavorare.

Ma senza l’utopia non puoi trattare
Le cose gravi: se non dai speranza  
Ai disgraziati che passano il mare,
Se non combatti la disuguaglianza,
E la violenza che vedi affiorare
In questo ribollire di ignoranza:
Non si ferma la fuga dei cervelli 
Distribuendo seggiole e sgabelli.

E non basta cantare ritornelli
Sui pregi di cristiani e musulmani
Sperando che il mercato li affratelli:
Bisogna dir dei turchi, degli afghani,
E dire chi è con questi e chi con quelli 
E dei cinesi e degli americani:
Dire una verità che sembri vera
E finalmente alzare una bandiera:

La vita corre molto più leggera
Quando combatti, tutto si ravviva,
Anche se perdi una ragione c’era
Ed era una ragione che serviva.”
Qui Gianni tacque. Ma Enrico dov’era?
Enrico era nell’erba che dormiva 
E che dormiva assai profondamente,
Sognando chissà cosa, sorridente. 

Sognava di volare verso oriente
Dai turchi, e dire al turco: “signor mio,
Le sembra bello bastonar la gente
Pontificando che l’ha detto Iddio?”
E il turco dice: “guarda, francamente
Da un po’ di tempo ci pensavo anch’io:
Grazie che me l’hai detto, caro Enrico,
Domani smetto, e gli divento amico.”

Poi volava dai russi, e in russo antico
Parlava a Vladimiro: “Vladimiro,
Parla con l’ucraino e fallo amico, 
Si dicon delle brutte cose in giro”
E Vladimiro: “sai cosa ti dico?
È giusto, quanto è vero che respiro.”
Telefona al gerarca e sul momento
fanno la pace e brindano nel vento.

“Bravi!” Gli disse Enrico. “Son contento!”
E galoppò sui monti pakistani 
Dove disse al mullah: “barba d’argento,
Son vostri questi tipi talebani?”
“Si!” disse quello. “Allora stammi attento:
Tu gli dovresti dire a quei cristiani
Che tutta questa rabbia non ha senso.”
“Ah si?” Fa quello. “Aspetta che ci penso”.

“Pensaci!” “Ci ho pensato! E son propenso 
A dirti che hai ragione. Qua la mano!”
E l’abbraccio con quell’abbraccio intenso 
Definito l’abbraccio pakistano.
“Arrivederci!” E profumò d’incenso
Enrico, che volava più lontano:
E volò verso il sole che declina
Passa due mari e risbucava in Cina.

Gli venne incontro con gran disciplina
Un signore distinto su un trattore,
Con un berretto ed una bandierina
E lui disse: “compagno imperatore,
Salviamo l’Occidente che declina,
Mettetevi una mano sopra il cuore:
E risolvete con l’americano
Formosa, Honkong e Ciccio il coreano” 

Ed il cinese disse: “ma che strano,
Non ci avevo pensato: ci hai ragione!
Come dice il proverbio confuciano,
Ne parlerò domani a colazione.”
Enrico salutò quel Tamerlano 
E trasvolando con il suo stallone
Volò su Montepulciano volando,
Dove la gente lo stava aspettando.

Planò sul palco e disse: “fino a quando,
Popolo rosso, dovremo aspettare
Che tutta l’uva vada maturando
Quando è il momento già di vendemmiare?
Non li sentite i grappoli cantando
La sovrumana voglia di brindare?
Ubriachiamoci dunque: di bellezza,
Di riflessione, di spensieratezza,

Di desideri impuri e limpidezza,
Di silenziosa verità segreta,
Di qualche cosa degno dell’altezza
Della nostra robusta anima inquieta, 
Ma ubriacatevi, datevi all’ebbrezza,
Come ci disse un giorno quel poeta:
E questo antico spirito latino
Rinnovi Montepulciano nel vino”.

E quando alzò quel calice divino
Volò uno stormo di colombe bianche:
E nel sogno salì da un tavolino
Una fanciulla bordeggiando l’anche,
Che lentamente gli venne vicino
E poi aprendo le sue braccia bianche 
Rimase ferma: e dopo con pudore
La bianca mano gli posò sul cuore

Come cercando con segreto ardore
Qualcosa, e lui cercò movendo piano
Il braccio quella mano, e con stupore
Si risvegliò stringendo un’altra mano,
Che frugava la giacca: con orrore
Strinse la mano di quel tipo strano
Con il cappuccio, e dirvelo non voglio
Ma gli stava cercando il portafoglio:

E borbogliava, colto nell’imbroglio,
Che certamente non aveva inteso
Che lui stava cercando del trifoglio
Che aveva visto un grillo e l’avea preso
Che insomma non avesse troppo orgoglio
Gli mollasse la mano era un frainteso
Che non era lì certo per rubare,
Che al contrario era pronto ad aiutare

E se ve lo dovessi raccontare
Dirò che era costui l’astuto Gano, 
Che a Magonza non volle ritornare 
E stava dalle parti di Rignano:
Ma su questo non voglio seguitare,
Perché ci porterebbe più lontano:
Votiamo quindi Letta a briglia sciolta,
Di Gano parleremo un’altra volta. 

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