Ci vuole del tempo per elaborare un lutto artistico. Il lutto per la perdita di una persona di famiglia, oppure di un amico, è un sentimento completamente diverso. Pochi giorni fa è scomparso a 80 anni Charlie Watts, batterista storico dei Rolling Stones sin dalla fondazione: di recente si era saputo che le sue condizioni di salute non gli avrebbero permesso di partecipare alla ripresa del No Filter Tour (qui tutte le date e i biglietti) dei Rolling Stones negli USA e che di conseguenza ci sarebbe stato Steve Jordan al suo posto. Watts si era scusato: non voleva che i suoi compagni annullassero tutto o rimandassero per l’ennesima volta, a causa sua.
La situazione in pochi giorni è precipitata, sino al triste esito finale. Alcuni hanno commentato: Pensavamo che i Rolling Stones fossero immortali”. No, non è così. È già capitato tante altre volte di dover elaborare un lutto artistico importante, che implica gusto, cultura, passione, orecchio, familiarità con un suono: con Brian Jones, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin tanti anni fa, poi con John Lennon, Frank Zappa, George Harrison, per arrivare in tempi più vicini a noi a Whitney Houston, Michael Jackson, Amy Winehouse. Per chi ha passato quasi tutta la vita in compagnia del suono degli Stones, per chi li ama e li ha visti più volte esibirsi dal vivo l’assenza di Charlie Watts è profonda.


Personalmente, gli Stones li ho incrociati su disco nel 1966, al tempo di Paint It Black e di Aftermath, poi nel 1967, Between The Buttons. Album che ho letteralmente arato col giradischi. Studiavo chitarra (classica), mi piaceva anche la batteria. Avevo uno sgabello di vimini, tre gambe: ci mettevo sopra una scatola di cartone e mentre i dischi giravano ci suonavo sopra, la batteria. Cose semplici, giochi da ragazzino, appassionato. Ringo Starr e Charlie Watts erano i miei idoli batteristi dell’epoca, quelli semplici (si fa per dire…), non ipertecnici. Poi Keith Moon (Who), John Bonham (Led Zeppelin), per arrivare (sempre fra i semplici…) a Russ Kunkel, Jeff Porcaro, Steve Gadd. Che non sono di certo Carl Palmer, Terry Bozzio, Vinnie Colaiuta, Steve Smith, Dave Weckl, Antonio Sanchez o altri ancora, mostri di tecnica. La semplicità, come la tecnica, è una cosa seria: suonare bene, con semplicità, è una delle cose più difficili del mondo. Se puoi, suona poco e bene, a meno che non ti vengano richiesti i fuochi d’artificio. Un colpo in meno è tanto meglio di due colpi in più.

Poi nel 1967, a dieci anni, andai accompagnato per mano da mia madre a vedere gli Stones a Roma, Palasport, spettacolo pomeridiano: era il loro primo tour in Italia, aprivano il concerto (tra gli altri) AlBano e i New Dada di Maurizio Arcieri. Concertone: Jagger uscì dal tunnel per arrivare sul palco lanciando rose rosse, dopo aver cominciato a suonare Brian Jones se la prese col suo amplificatore Vox che non ne voleva sapere di emettere suoni, lo prese letteralmente a calci! Era il primo grande concerto dal vivo cui partecipavo: in precedenza avevo solo visto spettacoli teatrali, oppure concerti di musica classica, con mio padre. Il risultato è l’imprinting: per il resto della tua vita segui quel suono, rock’n’roll, segui mamma oca, d’istinto, senza neanche pensare. Per questo se viene a mancare un signore come Charlie Watts, un vero gentiluomo, un po’ diverso dagli altri membri del gruppo, una superstar che non se la tira affatto, ci rimani malissimo, ti manca un pezzo, ti piomba addosso in un istante tutta questa storia, lunga 55 anni, praticamente tutta la vita.
Scriverne fa bene, addolcisce l’amaro, attenua il dolore, profondo.

A volte qualcuno chiede: “Ma non è esagerato quello che provi?” La risposta è no, non lo è.

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