Marco Bentivogli, dopo aver passato anni sul campo ad occuparsi dei metalmeccanic* della Cisl, adesso guarda il mercato del lavoro da studioso ed analista. Conosce le imprese, e conosce i lavorator*. Ed allora il suo ultimo libro Licenziate i padroni, come i capi hanno rovinato il lavoro, edito da Rizzoli, è insieme un atto di accusa e di speranza. La speranza che dagli errori del passato si possano trarre le lezioni per riportare il lavoro al centro della nostra vita. Ma non esclusivamente come obbligo strumentale alla sopravvivenza, ma come luogo importante delle proprie passioni.

Bentivogli, come sta cambiando il mondo del lavoro in Italia? Cosa chiedono i giovani e cosa offre il Paese?
“Tempo fa il New York Times aveva affrontato il tema parlando dello “Tsunami italiano”. Perché tre sono i fattori che condizionano in maniera impattante il lavoro: il clima, la tecnologia e la questione demografica. Per l’Italia però quest’ultimo elemento è un fenomeno irruento, perché stiamo attraversando la fase critica in cui la risorsa giovani é sempre più scarsa e quindi preziosa. Bisogna fare politiche migratorie diverse e rendere più attraente l’occupazione. L’Istituto Gallup lo scorso anno ha detto una cosa sconfortante: gli italiani sono tra i popoli più infelici al lavoro”

E ci sono sempre meno giovani attivi e quelli che ci sono dopo un po’ scappano…
“Una volta era il padrone che sceglieva i/le dipendenti, oggi sono i lavoratori e le lavoratrici che scelgono il padrone. C’è chi lo capisce e chi ancora no. Chi esercita ruolo di potere non ha ancora realizzato che siamo in una fase straordinaria. Troppe aziende usano ancora le vecchie leve: offro un po’ di benefit, aumento il welfare, ritocco i superminimi. Per le nuove generazioni questa non è una svolta allettante. Perché l’esperienza che fai nelle aziende è troppo spesso ancora molto soffocante. Si premia la seniority, che però è intesa come la somma degli anni, e si confonde la seniority con anzianità. E’ un modello contrattuale gerarchico e verticale, invece deve svilupparsi di più sull’orizzontalità. E va ridotto il potere di controllo che è ancora il paradigma delle strutture organizzative”.

Foto di Janno Nivergall da Pixabay

Tutto questo potrebbe cambiare con l’obbligo di introdurre entro il 2030 un bilancio di sostenibilità sociale?
“Ci sono imprese che hanno capito che i valori della tua attività sono importanti e attraenti, e che debbono essere valori reali. Se prendiamo l’ambiente, vediamo che in tanti hanno puntato sul green, ma in molti casi si è trattato di green washing o rainbowwashing. Altre però hanno introdotto l’elemento della cura della persona invece dell’elemento della competitività interna, perché un lavoratore, o una lavoratrice, non è un motore con un cilindro in più o in meno. A volte incontro imprenditori o imprenditrici che mi raccontano con rimpianto che in azienda non si scanna più nessuno per la carriera. E io rispondo: meno male. Serve fare squadra, la logica ipercompetitiva non convince più nessuno”.

Non si corre il rischio che senza competizione il lavoro diventi solo una necessità e non un piacere?
“No. Questo è un punto importante. La mia generazione ha pensato che il senso del lavoro si tramandi. In realtà non è così, bisogna fare in modo che si ritrovino le passioni. La gran parte dei ragazzi e delle ragazze dicono: costruirò le mie passioni lontane dal lavoro. E questo è un guaio. Nella mia idea di architettura del futuro, il lavoro deve essere un po’ meno a orari e un po’ più a progetto. Ma sempre con passione. Perchè se questa non c’è si ritorna ad una dimensione solo strumentale del lavoro, a un lavoro che mi serve solo per il denaro.
Serve un dinamismo equilibrato, che renda la vita meno soffocante, meno incasinata. Dove il lavoro non è una cosa che ti capita in mezzo alla giornata, ma qualcosa che si concilia con la tua vita. Questo deve essere l’obiettivo delle aziende e di chi cerca lavoro”.

Foto di aymane jdidi da Pixabay

Stimolare la passione, equilibrio e cura della persona. L’identikit del padrone buono…
“Attenti al mito del padrone buono, spesso è una fregatura. A quelli che dicono “siamo una grande famiglia diamoci del tu”, quasi preferisco il vecchio padrone che ti dava del lei, però non ti entrava in casa a mezzanotte con il digitale e che non punta a premiare la tua reperibilità. Il padrone buono è quello che ti coinvolge nel suo progetto impresa. Se il rapporto non è sano si va poi verso il divorzio. Non è un caso che molti ragazzi e ragazze scelgano la reputazione di un’impresa come elemento prevalente che vogliano lavorare in aziende che si occupano di benessere animale, o che non siano inquinanti. Che le scelgano in base alla loro reputazione. O perchè fanno cose utili cose utili per il loro territorio. E’ successo con Luxottica. Hanno introdotto la settimana lavorativa di 4 giorni. Una scelta intelligente, che va incontro ai/alle dipendenti e all’azienda stessa. Perchè se non fanno qualcosa per trattenere la gente a lavorare in un paese di montagna, mal collegato, tra un po’ non trovano più nessuno a fare gli occhiali ad Agordo. E si spopola un territorio, cosa che sta
accadendo in tutto il nordest, dove la spinta all’emigrazione è maggiore che nel sud Italiano. Il padrone buono è quello capisce il cambiamento in atto. E che custodisce l’umanità”.

Condividi: