Alla mostra Impressioni dal vero. La via Appia e la via Latina nei disegni di Maria Barosso al Complesso di Capo di Bove, la memoria di una pioniera dimenticata: quando l’archeologia era un mondo di uomini, lei tracciava con acquerelli la nascita della tutela italiana.

Due strade antiche, la via Appia e la via Latina, e lo sguardo appassionato di una donna che per prima unì il rigore scientifico dell’archeologia alla sensibilità dell’artista. Si inaugura sabato 15 novembre al Complesso di Capo di Bove “Impressioni dal vero. La via Appia e la via Latina nei disegni di Maria Barosso”, una mostra che resterà aperta fino al 12 aprile 2026 e che restituisce il lavoro e la figura di Maria Barosso (1879‑1960), la prima disegnatrice archeologa della Direzione delle Antichità e Belle Arti.

Disegni, acquerelli, rilievi e documenti d’archivio

L’iniziativa, promossa dal Parco Archeologico dell’Appia Antica e curata da Santino Alessandro Cugno, Matteo Mazzalupi, Mara Pontisso e Ilaria Sgarbozza, racconta due siti di straordinario valore – la Chiesa di San Cesareo de Appia e la Basilica paleocristiana di Santo Stefano sulla via Latina – attraverso disegni, acquerelli, rilievi e documenti d’archivio provenienti dalla Soprintendenza Speciale di Roma e da istituzioni italiane e internazionali.

«L’iniziativa – osserva Massimo Osanna, Direttore Generale Musei – riflette il duplice compito che distingue un istituto come il Parco: salvaguardare e insieme condividere, restituendo ai cittadini la memoria e la bellezza di un paesaggio unico al mondo».

Per Luana Toniolo, direttrice delegata del Parco Archeologico dell’Appia Antica:

«Riscoprire Maria Barosso significa riconoscere, nella sua dedizione al patrimonio, la nascita stessa della cultura della tutela in Italia».

Le sue tavole, spesso animate dagli operai al lavoro, restituiscono non solo le forme dell’antico, ma anche la tensione civile del conoscere e del preservare.

Villa di Capo di Bove dove si tiene la mostra


Il titolo “Impressioni dal vero” riprende una formula che Barosso amava annotare sui suoi disegni per indicare un modo di lavorare “dal vero”, en plein air, che avvicina la precisione del rilievo alla vibrazione emotiva della pittura. Le sue tavole, spesso popolate dagli operai al lavoro, diventano così anche un racconto del mestiere dello scavo e della paziente ricostruzione del passato.

Tra le opere esposte spicca un disegno del 1937 che raffigura la scoperta all’interno di San Cesareo dello splendido mosaico romano in bianco e nero, presentato assieme a frammenti lapidei provenienti dallo scavo e al verbale della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra che il 6 luglio 1936 registra il ritrovamento del mosaico. Il cantiere di restauro che tra il 1940 e il 1942 ha interessato l’interno della basilica di Santo Stefano è documentato attraverso rilievi puntuali, vedute particolareggiate, piante e sezioni delle strutture. I documenti sono affiancati nell’esposizione da reperti marmorei restaurati per l’occasione. Fotografie storiche di Giovanni Gargiolli ed Ernest Nash restituiscono il fascino perduto del monumento immerso nella campagna romana.

Il percorso espositivo

Il percorso espositivo è arricchito da materiali concessi da collezionisti privati e prestigiosi enti, tra cui la Bibliotheca Hertziana, il Deutsches Archäologisches Institut, la British School at Rome, l’American Academy in Rome e il Museo di Roma. Ospitata nel suggestivo Complesso di Capo di Bove, la mostra pone l’attenzione su due contesti attualmente interessati da lavori di restauro e valorizzazione finanziati con fondi PNRR volti a un ampliamento della fruizione.

Maria Barosso, la donna che disegnò l’archeologia: riscoprire la prima sguardo femminile sull’Appia Antica

C’è stato un tempo in cui l’archeologia era una lingua parlata quasi esclusivamente al maschile. Nei cantieri di scavo, nei rapporti ufficiali, nei manuali di storia antica, i nomi erano quelli degli uomini che scavavano, dirigevano, decidevano. Le donne, quando c’erano, restavano nell’ombra: assistenti, disegnatrici, “collaboratrici”. Maria Barosso, invece, trasformò quella marginalità in voce.

Con il suo taccuino e la sua matita, Barosso documentò la Roma che cambiava, tracciando con precisione scientifica e sensibilità artistica le linee dell’antico. Oggi, la mostra “Impressioni dal vero” restituisce finalmente il posto che le spetta nella storia. Nelle sue tavole acquerellate c’è l’intuizione di una modernità sorprendente: non solo il rilievo archeologico, ma uno sguardo capace di leggere il paesaggio come un organismo vivo.

Eppure i suoi disegni, le sue annotazioni “dal vero”, la sua mano ferma sotto il sole della campagna romana, restano una testimonianza pionieristica di competenza e dedizione. Riscoprirla oggi significa non solo restituire un volto dimenticato, ma riscrivere il modo in cui raccontiamo la storia della tutela, spesso appannaggio maschile.

«Riscoprire Maria Barosso significa riconoscere, nella sua dedizione al patrimonio, la nascita stessa della cultura della tutela in Italia» – come ricorda Luana Toniolo – e davvero, guardando i suoi lavori – i rilievi di San Cesareo de Appia, i mosaici scoperti, le vedute di Santo Stefano sulla via Latina – si percepisce la passione di una donna che faceva della conoscenza un gesto di cura.

Una passeggiata nella memoria: il Parco e la sua storia

Visitare la mostra diventa anche un invito a camminare tra le pietre e il silenzio dell’Appia Antica. Il Parco Archeologico dell’Appia Antica, istituito nel 2016, tutela oltre 4.500 ettari di paesaggio e circa 16 chilometri dell’antica via consolare, il più straordinario museo a cielo aperto di Roma. Dal Mausoleo di Cecilia Metella alla Villa dei Quintili, dai sepolcri ai resti delle ville imperiali, ogni passo racconta la stratificazione di una città eterna.

Nel Complesso di Capo di Bove, dove un tempo sorgeva una villa romana poi trasformata in casale medievale, l’archeologia incontra la memoria contemporanea. Dopo aver visitato le “impressioni dal vero” di Maria Barosso, basta uscire nel giardino e lasciarsi guidare dai cipressi e dai muretti di tufo per ritrovare quel paesaggio che lei, novant’anni fa, aveva amato e disegnato “dal vero”.


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