Lorenzo Loris è una persona schiva, con una voce calda e gentile, e quando ti fissa negli occhi sembra voglia conoscere ogni tuo segreto. Tantissime sono le regie che hanno scritto la storia del Teatro Out Off di Milano, del quale è l’anima artistica da tanti anni, diretto insieme a Mino Bertoldo. Continua, dunque, la mia inchiesta con le operatrici e gli operatori culturali di Milano, capitale naturale del Teatro Italiano, sul tema della cultura come bene comune.

Caro Lorenzo, cosa significa per una comunità non poter avere un servizio pubblico come il teatro?
Significa un impoverimento culturale in un paese che non ha bisogno di essere impoverito perché è già stato depauperato della propria cultura. Vedi i teatri e i musei che hanno chiuso, le mostre che sono diminuite eccetera, non sono altro che un privare le persone di un elemento fondamentale per la propria formazione, un fattore che contribuisce a forgiare il proprio carattere, che stimola e arricchisce la propria conoscenza,  che favorisce il confronto con gli altri. E’ una forma di violenza.

Cosa manca in Italia affinché la cultura venga considerata un bene primario di ogni cittadino/a?
Essenzialmente la formazione!  Si sono sempre date indicazioni in linea di massima sbagliate. Ai giovani è stata quasi sempre trasmessa la parola “cultura” non in vista di un arricchimento personale ma come qualcosa che veniva imposto per arrivare a un traguardo. In realtà la cultura aiuta a crescere, a diventare consapevoli, ad assorbire esempi di vita fruibili attraverso l’arte. Esempi che ti facciano scoprire un “sé”  più formato,  più completo.

Puoi dire chi è un/a artista del passato che credi debbano conoscere le giovani generazioni di professionisti/e del teatro?…e perchè? 
Ho difficoltà a limitare questa risposta a un solo artista del passato perché appena mi accingo a farlo mi accorgo di tralasciare qualcosa di importante e fondamentale che ci ha lasciato in eredità un altro. Gli artisti del passato che dovrebbero conoscere i giovani sono tutti i grandi che hanno costruito il passato, tutti i grandi che hanno costruito la storia. Come fai a dire che è meglio Shakespeare, o Flaubert, oppure è meglio Goldoni piuttosto di Dostoevskij, i nomi si sprecano. E’ tutto il passato! E’ un abbracciare i grandi della cultura che bisogna quasi avere nel corredo genetico. Ci devono essere trasmessi sin da piccoli, li dobbiamo respirare nelle cose belle che abbiamo intorno, nelle letture formative, nel saper vedere, guardare, ascoltare. Per affinare la nostra sensibilità e metterla al servizio degli altri. Si deve saper donare agli altri e questi grandi hanno saputo farlo. Hanno saputo donare e donarsi in maniera incondizionata.

Cosa credi che bisognerebbe fare per far tornare il pubblico in sala?
Innanzitutto il pubblico va rassicurato. Perché è stato, anche per necessità, quasi terrorizzato. Dico questo perché mi rendo conto che non avevamo molte alternative. Abbiamo persino rivoluzionato il nostro linguaggio per dare un’informazione sulla pandemia. Adesempio:  assembramenti,  lockdown, distanziamento sociale  ecc., sono parole che abbiamo imparato a usare soltanto in questo periodo. Ma il pubblico teatrale è un pubblico educato, un pubblico colto, che non si abbandona all’istinto. In teatro il pubblico si siede in silenzio e ascolta. E’ un pubblico a cui si può dire “tieni la mascherina” e siamo sicuri che rispetterà le regole proprio perché è comunque un pubblico attento e sensibile. La cultura salva, salva anche la salute!

Cosa vorrebbe lasciare Lorenzo Loris ai suoi nipoti, per il loro futuro?
Vorrei lasciare una sensibilità raffinata. Che vuol dire altruismo, rispetto del prossimo, di sé stessi e delle cose belle che abbiamo intorno. È un sentimento che qualifica la persona e la rende migliore. 

Cosa vorresti vedere a teatro adesso che abbiamo riaperto?
Di tutto, non voglio avere preclusioni. Tutto ciò in cui io possa rispecchiare anche solo per un attimo la mia anima e mi faccia sentire migliore.

Quand’è l’ultima volta che ti sei commosso?
Quando una delle mie due figlie, la più grande, che vive in Australia e che vedo raramente per via della distanza, mi ha mandato questo messaggio nel cuore della notte: “I am an English teacher and love teaching Shakespeare and stories because of your blood. I have your heart in my heart”.

Cosa significa per te lottare per il bene comune?
E’ una bella domanda perché innanzitutto bisognerebbe iniziare a confrontarci con gli altri, a misurarci, a imparare ad ascoltarli, e capire qual è il bisogno più diffuso. Purtroppo questo è un paese in cui si parla tanto e si ascolta poco. E quindi molto spesso si crede di fare il bene comune ma si tende a curare il proprio “orticello”. Ci spendiamo principalmente per le gratificazioni personali. Non voglio addentrarmi a parlare della classe politica o di una categoria in particolare. Sicuramente i politici sono quelli che ci rappresentano di più e che ci vedono meno.  Perché vivono in una sfera che è tutta loro, fatta di altri ingredienti, diversi da quelli che rappresentano per noi il pane quotidiano.

Questo tempo di chiusura ci ha fatto capire che del teatro se ne può fare a meno! Quanto è vera questa affermazione?
Abbiamo dei bisogni fondamentali che sono: mangiare, bere, dormire e forse riprodursi. Ecco, quindi se escludiamo tutto questo, di tutto si può fare a meno. Ma saremmo ancora degli esseri umani? Io credo proprio di no.

Quand’è che hai sorriso l’ultima volta?
Quando ieri mi trovavo in macchina con la mia compagna e lei mi ha detto che la freccia che avevo azionato  in quel momento faceva lo stesso rumore che fa mia figlia di 5 anni quando,  schioccando la lingua contro il palato, imita il suono prodotto dalle frecce di una macchina.

Chi dovrebbero essere le persone che gestiranno i teatri di domani?
Dato che i teatri vengono ormai chiamati “ imprese teatrali”, dovrebbero necessariamente essere dei dirigenti in possesso di una formazione specifica, una formazione umanistica, teatrale e di una sensibilità particolare. Perché non si tratta di parlare solo di numeri, ma si tratta di parlare ai cuori delle persone. E quindi è importante sì far quadrare i conti numerici, ma anche i conti degli affetti, della sensibilità,  della cultura.  E perciò far quadrare tutti quei conti che molto spesso lasciamo aperti.

Per puntare sui/sulle giovani artisti, ci vuole più incoscienza o più coraggio?
Il coraggio ha sempre in sé una dose di incoscienza. Sicuramente si tratta di fare delle operazioni coraggiose e incoscienti insieme. Ma questo vuol dire credere nel futuro. Anche quando siamo venuti al mondo è stata fatta in fondo una scommessa incosciente e coraggiosa  da parte dei nostri genitori. Ma se non avessero fatto ciò il mondo forse sarebbe più grigio.

Hai realizzato i sogni che avevi da ragazzo. E i sogni che hai adesso?
Per fare il mio lavoro, in questi anni, ho avuto bisogno di quelli che credo siano due miei punti di forza: la costanza e la tenacia. Insomma ho dovuto crederci fino in fondo. Ma allo stesso tempo non posso non rivolgere un pensiero alla mia famiglia per le mie innumerevoli assenze che tutto questo ha comportato. Perché ho tolto tanto tempo anche a loro, per andare avanti caparbiamente nella realizzazione di questo desiderio, sogno, illusione che infine si è concretizzata. Nel mio piccolo ho contribuito con il mio lavoro e le mie rinunce a lasciare in eredità al Comune di Milano una sede ristrutturata, funzionale e moderna come il Teatro Out Off. Sì, in questo senso ho coronato un sogno che è diventato realta’.   Ora una parte del mio sforzo giornaliero è destinato a fare in modo che questo spazio accolga giovani generazioni di artisti e di pubblico.

Cosa pensa Lorenzo Loris quando è seduto in sala, poco prima di vedere uno spettacolo? Vorrei non avere pregiudizi… poter aprire il mio cuore e affinare la mia anima, facendomi condurre dalla mia ragione.  E’ difficile, spesso non ci riesco.

Per fare il lavoro che hai fatto in questi anni, hai avuto bisogno di più amore o di coraggio?
Di entrambi. Non saprei distinguere fra l’uno e l’altro. Si sono compenetrati a vicenda, e senza l’uno non ci sarebbe stato l’altro.

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