Passata la tempesta di sabbia di Sanremo, mi pare opportuno continuare ad analizzare a mente fredda i simboli che Achille Lauro ci suggerisce nelle sue esibizioni. Analizzerò qui gli eventi di marzo 2021, la settantunesima edizione del Festival.

L’analisi in questione è suggerita anche dalla ricorrenza della Pasqua, che come sapete celebra la resurrezione in Palestina, a Gerusalemme, e ci porta costantemente a meditare su sacrifici e resurrezioni germinate in quelle terre così simboliche, così antiche e insieme contemporanee, come le tensioni e i drammi che ospitano.

Per chi non avesse presente la prima parte di  questa ricerca, pubblicata da Rewriters su uno dei sui mag-book, diremo brevemente chi riteniamo che Achille Lauro sia: uno pseudonimo che cita il nome della nave presa in ostaggio dal Fronte di liberazione della Palestina nel 1985, e sequestrata in cambio di richieste politiche, che mise in primo piano il problema del Popolo Palestinese, della sua lotta e della sua poetica.

Ecco l’analisi che ne consegue: il primo giorno AL è arrivato vestito da fiore del deserto, catena al collo e una corazza vagamente Azteca. Si rappresentava qui il popolo palestinese che è un fiore nel deserto e che in qualche modo si associa a tutti i popoli perseguitati, come gli Aztechi, ai quali la corazza e il copricapo avicolo rimanda. Le lacrime insanguinate sono chiaro riferimento alla sofferenza e alla sacrificio della lotta di lunga durata contro l’oppressione israeliana. Il bastone vagamente biblico ci vuol dire che la persecuzione di oggi del popolo palestinese è speculare a quella degli egiziani di un tempo su quello ebreo: affermazione quanto mai provocatoria, paradossale e coraggiosa.

La seconda serata Achille Lauro ha scelto la denuncia della aggressione militare: è arrivato in giacca grigia, vestito da Mina, accompagnato dall’attore Claudio Santamaria. Mina non è un sostantivo casuale. Mina, ordigno letale, diffusa da uomini in grigio, macchine militari insensibili: la morte di famiglie e bambini che ci inciampano sopra, sotto gli occhi della Santa Maria (bella idea) che come è noto è venerata da islamici e cristiani.

La figurazione messa in scena l’ultima sera era ancora più interessante. Lauro ha rappresentato il popolo palestinese sotto forma di gallina dalle piume bianche. Bella scelta: la gallina è l’animale più innocente, la vittima designata nell’alimentazione proletaria dai tempi biblici. Ma ancora più interessante è mettere a fronte di questa assoluta povertà la figura di Fiorello con la corona di spine, a rappresentare Cristo. Infatti, ci ricorda l’icona, Cristo è fino a prova contraria un palestinese che ha avuto molta fortuna in Europa e in tutto il mondo. E la Corona di spine è il momento in cui Cristo viene giudicato e sbeffeggiato dopo il giudizio di Pilato.

Il fatto che si scelga quel momento, il momento prima della crocifissione, col Cristo immobile davanti alla gallina che si rotola per terra, può lasciare perplessi. Ma in Fiorello/martire è facile leggere il sacrificio degli intellettuali della sinistra, impegnati a comunicare la tragedia del popolo che perde piume a terra, mai ascoltati e sovente condannati: è questo il momento che precede la fine, vuol dirci Fiorello. Possiamo evitarla? Chissà, sta solo a noi decidere.

Potente e geniale questa chiamata in causa dell’intellighenzia europea nel collasso della gallina, uccello che non vola, potenzialità incompiuta, vittima rituale. Achille Lauro non è il povero pupazzo di Gucci che vogliono farci credere: è un sottile, lucido, impegnato e generoso combattente della causa Palestinese. Forse l’unico rimasto, verrebbe da dire: e sicuramente tra i pochi.

Buona Pasqua.

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