Quando nel 2021 un sindaco dichiara «guerra al degrado urbano» con un’ordinanza comunale contro le minigonne e le scollature, non ci possiamo stupire se una legge attesa da 24 anni come quella del Ddl Zan non ce l’abbia fatta a superare lo scoglio dell’aula del Senato. Siamo il Paese in cui, nell’ultimo anno, è stata uccisa una donna ogni tre giorni. Ma c’è ancora un 23% della popolazione che pensa sia un problema che riguarda solo una piccola minoranza, dice il Censis, mentre 4 italiani su 100 ritengono che non si tratti di un problema, ma di casi isolati cui viene data una eccessiva attenzione mediatica. Altro che Medioevo, qui siamo tornati al Paleolitico.

Usciamo da queste caverne! A novembre si riapre al pubblico l’area archeologica dell’Arco di Giano al Velabro, un monumento di grande fascino e importanza al centro della Roma più antica e preziosa, grazie ad un accordo stretto dalla Fondazione Alda Fendi – Esperimenti con la Soprintendenza speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. Per presentare questa importante restituzione alla città, verrà presentata NU-SHU. Le parole perdute delle donne: una performance contro il femminicidio (ma che non mette in scena il femminicidio!), di fortissimo impatto visivo ed emotivo, che si svolgerà proprio all’interno della cancellata dell’Arco di Giano.

Il termine femminicidio non nasce per caso, né perché mediaticamente d’impatto, e tantomeno per ansia di precisione. Oggi sembra quasi una banalità ripetere i dati dell’OMS: la prima causa di uccisione nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio (da parte di persone conosciute). Negli anni Novanta il dato non era noto e quando alcune criminologhe femministe verificarono questa triste realtà, decisero di “nominarla”. Fu una scelta politica: la categoria criminologica del femmicidio introduceva un’ottica di genere nello studio di crimini “neutri” e consentiva di rendere visibile il fenomeno, spiegarlo, potenziare l’efficacia delle risposte punitive. La parola femminicidio non indica il sesso della persona uccisa, indica il motivo per cui sia stata uccisa.

Novembre è il mese contro la violenza sulle donne (il 25 è la è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite), comportamento che deve essere eradicato mentre il suo contrario, il rispetto, diventare abitudine nella vita quotidiana. È nostro compito quello di educare i più giovani alla cultura del consenso e sensibilizzare su cosa significhi essere donna oggi. Per educare alla non violenza è necessario lavorare fin dall’infanzia sulla creazione di relazioni positive e paritarie: la non violenza si definisce, come valore, come prassi e come scopo. È una scelta etica, che si traduce in azioni e comportamenti, finalizzati al raggiungimento di obiettivi di giustizia sociale.

La strada non sarà breve, calcolando che già nel 1897 una donna di nome Deborah Owex si preoccupava di brevettare una protezione per le donne da allacciare intorno alla vita e alle caviglie e da fissare lungo il bordo inferiore, in modo tale da nascondere e proteggere le calze, il vestito e la gonna dell’indossatrice per evitare contatto con corpi estranei. Geniale e tremendo allo stesso tempo.

Questo brevetto mi richiama alla memoria la mostra itinerante (di qualche anno fa) dal titolo Com’eri vestita?, che raccontava la storia di abusi sulle donne, con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sul tema, eliminando il pregiudizio che le vittime avrebbero potuto evitare uno stupro, indossando abiti meno provocanti. Nata sulla scia di un’esposizione statunitense, l’originale What were you wearing, organizzata per la prima volta nel 2013 dal Centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas, l’installazione è stata adattata al contesto italiano e riproposta, nel marzo 2018, dal Centro Antiviolenza milanese Cerchi D’Acqua.

L’evoluzione del brevetto del 1897 è rappresentato nel marchio AR Wear ovvero anti-rape wear (indumenti anti stupro), fondato da due donne chiamate Ruth e Yuval, che propongono slip, culottes e pantaloncini in un tessuto totalmente resistente agli strappi e ai tagli. Questi vestiti non possono essere spostati, né tirati giù. La protezione è quindi assicurata anche in casi estremi, come perdita di coscienza o incapacità di resistenza dovuta all’assunzione di droghe o alcool.

Ma allora che fine ha fatto «la nudità che mi rinfresca l’anima» di cui parlava Alda Merini? Siamo ormai spogliate, di tutto.

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